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È un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creatività. Per chi ama scoprire anche ciò che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'è del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[30/8/2001]

Pedalando nella pianura


Dove Anita andava a cavallo per amore e per unire l'Italia e poi morì


Il sole di mezzogiorno smorzava i colori della Romagna, senza però togliere loro intensità e trasparenza. La pianura, con i suoi campi e le sue paludi, sembrava una stoffa elegante: il verde sfumava nel beige, che si mescolava al marrone e all'azzurro tenue. Dei punti bianchi – solitari o a gruppi – all'improvviso prendevano il volo e si rivelavano gabbiani alla ricerca di cibo o addirittura aironi, più stanziali e individualisti. Il fiume, lungo il quale correva la strada dritta e sterrata, era quasi immobile. Fresco e promettente, accoglieva lungo il bordo una serie di piccole costruzioni in legno su palafitte poste a ridosso dell'acqua a distanza regolare l'una dall'altra. Da ogni capanna pendevano reti da pesca che da una certa distanza apparivano sottili ed essenziali come tele di ragno, dando al paesaggio uno spunto orientale. Vietnam?

Le reti sollevate dall'acqua e le porte chiuse contribuivano a creare un'atmosfera sospesa e tranquilla. Lì i pescatori, professionisti o appassionati, vanno con i loro parenti in festa a mangiare fritture di pesce appena pescato: direttamente dal fiume alle cucine delle piccole case marroni. Ma in quel momento non c'era nessuno. Forse perché chi vive la natura tutto l'anno sa che il sole a picco di agosto non è il miglior amico dell'uomo.

Quattro biciclette correvano sulla strada.

La zona intorno a Comacchio è nota soprattutto per due motivi: l'allevamento di anguille e Anita Garibaldi. Il ricordo di Anita aleggia nella campagna. Lei, sola o con Giuseppe, viene evocata da racconti, targhe, lapidi e da qualche parte c'è anche la capanna – la si può andare a visitare – dove, ferita a morte, emise l'ultimo respiro. Forse per suggestione o perché il destino porta fatalmente a far combaciare cose simili nei momenti decisivi, le valli di Comacchio, dolci, allegre e un po' selvagge, ricordano la leggendaria sudamericana a cavallo.

Le anguille, allevate nelle acque salate e paludose, si mangiano nelle trattorie della zona e le mamme le sanno cucinare in diverse maniere. Di questo stava parlando Felice mentre pedalava sulla strada sterrata lungo il fiume. Stava raccontando a una delle tre ragazze di come sua madre, quando lui era ragazzo, le faceva sulla brace, tagliate a fettine. Buonissime.

Felice, settant'anni compiuti da poco, era piccolino, asciutto e abbronzato. Sopracciglia folte, baffoni ancora scuri, pochi capelli. Come molti Romagnoli aveva la bicicletta nel sangue. Da ragazzo prometteva di diventare un professionista, forse un campione. Ma suo padre, contadino di poche parole, lo aveva messo in guardia, “con la bicicletta non ci si guadagna da vivere” e Felice era diventato falegname. Per tutta la vita lavorò il legno e, una volta in pensione, fece del suo lavoro una passione e del legno un altro figlio da crescere, un amico forte e longevo su cui contare. “Il legno continua a vivere anche nei mobili, si muove per secoli. Bisogna conoscerlo”.
Faceva caldo, ma, volando sulla strada, non si sentiva. La velocità faceva sì che l'aria stuzzicasse il corpo e si insinuasse tra i capelli facendoli danzare lontani dal viso, sul quale nasceva uno stupido e beato sorriso di benessere. La bicicletta è per tutti, è un oggetto semplice ed elementare, ma in grado di farci correre, sognare e soprattutto stare in equilibrio su due ruote sottili, con il solo movimento ritmico delle gambe. In pianura, senza quasi far rumore, si possono mangiare chilometri di paesaggio entrandoci dentro, appropriandosene pian piano ma restandone anche leggermente in superficie, si può sentire la terra e tenere d'occhio l'orizzonte che si fa sfondo in movimento dei nostri pensieri. Si possono udire le voci degli animali e passando vicino si può rispondere facendogli il verso. Si raggiungono le mete, si torna indietro, ci si ferma, si scende dalla sella e ci si addentra nel mondo, sapendo che il cavallo di ferro è lì ad aspettarci – sdraiato sul prato o appoggiato a un muro, senza catene - per riprendere insieme un mite viaggio, per farci percepire di nuovo la magia dell'equilibrio, per farci assaporare la velocità del nostro corpo in movimento, per esaltare i sensi. Andando in bici, che è un po' come volare, è difficile che la testa si arrotoli tra le preoccupazioni. La notte sì, quando si è sdraiati nel letto cercando di dormire, la mente inizia a lavorare, perché la quiete promessa dal sonno è impagabile solo quando l'anima è tranquilla. Ma su quelle due ruote la vita sembra più facile. In pianura. La bicicletta è libertà. È un piacere, proprio come mangiare la pasta nel brodo di manzo.

In Romagna la pianura, a differenza di altri luoghi, è cordiale e luminosa.

Fiero di condividere quel giorno la pedalata quotidiana con sua figlia Regina e le due amiche, Felice aveva un'espressione raggiante e lo sguardo buono e intelligente era ancora più generoso del solito. Si affiancava ora all'una ora all'altra per dire due parole e intanto saggiare la loro resistenza al caldo e alla fatica. “Fammi vedere il tuo sguardo…” diceva e se gli sembrava che rivelasse sforzo, poggiava la mano ancora forte sulla schiena e, a turno, le spingeva per qualche minuto. Regina aveva al collo una macchina fotografica.

L'idea di quella gita era stata di Isabella, venuta a visitare l'amica Regina che stava trascorrendo un paio di settimane dai genitori. Felice, al quale non era sembrato vero, aveva organizzato tutto in un attimo e il mattino dopo erano partiti alle nove, programmando di tornare a casa per pranzo, dove Marta li avrebbe aspettati con la pasta fatta in casa.

Marta, la madre di Regina, era stata una bella giovane dal vitino di vespa. Era conosciuta come “la ragazza dello zuccherificio”, soprattutto dai passeggeri del treno sul quale saliva ogni giorno per andare a lavorare. Suo padre era uno dei guardiani della fabbrica di zucchero e tutta la famiglia aveva il privilegio di abitare in un piccolo appartamento all'interno della grande costruzione. Lei amava dormire: perennemente in ritardo, correva tutte le mattine e arrivata alla recinzione nel punto in cui il treno faceva la sua fermata gettava la borsa dall'altra parte, scavalcava e saliva in carrozza. Nel momento in cui saltava tutti i ragazzi del treno applaudivano l'affannata puntualità di Marta. Fra i ragazzi del treno c'era anche Felice.

La strada aveva ormai piegato verso sinistra, abbandonando il fiume. Felice, Regina, Isabella e Luciana arrivarono ad una trattoria vecchiotta in piena campagna, dove si fermarono per un caffè. Non era ancora ora di pranzo e il posto semivuoto gli permise di scegliere il migliore fra i tavoli all'ombra dei noci e delle querce che filtravano dolcemente la prepotenza del sole. L'oste, un ragazzone indolente sui venticinque anni, appariva in quel momento l'opposto – come il mezzogiorno è il contrario della mezzanotte – di quei giovani bolognesi, ravennati e campagnoli, belli, selvaggi e frastornati, costretti dal vortice estivo a divertirsi tutte le sere sulle spiagge di Punta Marina, tra Gin Tonic, una piada con salsiccia e le danze sudate a piedi nudi nella sabbia. Alcuni di loro, autoironici e non giovanissimi, anzi “quarantenni che non si rassegnano” come li definivano Regina e la sua amica d'infanzia Paolina – bibliotecaria a Ravenna –, sembravano divertiti di loro stessi e del fatto di sentirsi schiavi di un'inspiegabile volontà divina che li costringeva ad obbedire ad un dovere dionisiaco. Come il quarantenne ravennate Jean-Pierre, ex bello e un po' sciupato, di buona famiglia e cresciuto all'estero, che rivelò ad Isabella di aver “fatto baracca” per tre notti di fila, senza dormire mai. “Non ce la faccio più, non so come sto in piedi” le disse con un sorriso sornione.

Il ragazzo della trattoria impiegò parecchio tempo a portare i caffè e un panino da dividere in quattro: forse più di quanto ci voleva alla mamma di Felice per cucinare le anguille alla brace. Il tempo necessario ad ascoltare Felice, a scattare delle foto, a intravedere Anita Garibaldi.

Faceva ridere Felice, con i suoi improvvisi lanci di battute, che avevano un effetto immediato perché inaspettate, surreali e precise. Rispettavano con naturalezza i ritmi della comicità, perché pronunciate necessariamente al momento giusto e con inevitabile accento romagnolo.

Regina tirò fuori la macchina fotografica e cominciò a scattare. Isabella stava ridendo quando alzò lo sguardo e in lontananza vide un cavallo in corsa con in sella una ragazza dai lunghi capelli scuri. La polvere sollevata dagli zoccoli avvolse cavallo e cavaliere, divorandoli e facendoli sparire nel nulla. Isabella rimase immobile per qualche secondo, poi spostò nuovamente lo sguardo su Regina, che la stava fotografando. Poi Regina inquadrò suo padre – con la maglietta gialla e il berretto da ciclista – mentre abbracciava soddisfatto le altre due, sedute ai suoi lati sulla panca di legno. Click ed ecco suo papà in mezzo alle due ragazze con le guance rosse. Sotto la quercia fu fermato un ricordo a colori della gita in bicicletta che lì portò fino a quelle paludi. Le stesse che la sudamericana vide per l'ultima volta…

Per amore Anita, libera, cavalcava, partoriva, risaliva in sella e correva con Garibaldi. E lì morì.

Valentina Carmi





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