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È un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creatività. Per chi ama scoprire anche ciò che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'è del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[6/1/2010]

Caturegli Formica

NODI E SNODI
I tappeti mentali di Beppe Caturegli e Giovannella Formica



So che tu e Frank stavate progettando di disconnettermi.
E temo di non poter permettere che questo accada.
HAL 2001

La lingua dei nodi
Se osserviamo un tappeto, possiamo analizzarlo in due sensi: dal punto di vista del tappeto, cioè della sua realizzazione manuale; o dal punto di vista dell'immagine che vi è riportata. In altre parole, dal punto di vista dell'esecutore che si trova a dover scegliere un cartone da riprodurre; o dal punto di vista dell'immagine e delle motivazioni che spingono il suo autore a scegliere il tappeto come mezzo di espressione. Questo accade poiché, come è noto, nella produzione di un tappeto le fasi del progetto e dell'esecuzione non coincidono. Il disegno viene affidato a un telaio umano, del cui lavoro e fatica spesso l'autore non è nemmeno testimone.

La prima domanda, guardando i tappeti di Caturegli e Formica, è: perché hanno scelto un tappeto per tramandare le loro immagini? Si possono avanzare tre risposte: portabilità, senso della distanza e bellezza dell'imperfezione. I grandi tappeti in Oriente e gli arazzi in Occidente sono un'aquila bicipite. Una testa è rivolta alla potenza, al prestigio dei proprietari, alla celebrazione dei loro fasti politici e spirituali in tempo di pace. L'altra è rivolta ai tempi bui e alla guerra, quando un manrovescio della storia può richiedere di evacuare una corte o un castello nel giro di poche ore, e allora tappeti e arazzi si arrotolano alla svelta per essere portati via, verso una nuova vita, comodissimo bene rifugio.

Questa duplice natura – ogni tappeto è steso o avvolto, è immobile ma mobile – è legata sottotraccia a un oscuro avvertimento, al senso di un pericolo imminente. La sua impronta nomadica ci ricorda che ai tempi di pace seguono conflitti, che occorre essere preparati ai mutamenti repentini, e che nel momento della necessità potremmo decidere di buttare il tappeto nel bagagliaio dell'auto e partire senza guardarci indietro, usandolo durante il viaggio di fuga per una delle sue funzioni originali: come isolante dall'umidità che viene dalla terra. La portabilità è un memento pratico dell'inquietudine dell'uomo, che non ha ancora imparato a godersi la pace per periodi prolungati, ed è in stretta relazione con la fragilità delle sorti umane.

Seconda risposta, la bellezza della distanza. Alighiero Boetti si trova in una linea di progenitura diretta con il lavoro di Caturegli e Formica. Nel 1971 Alighiero Boetti scopre l'Afghanistan e ne fa una seconda patria. . (Più che una scoperta, è un ritorno: Boetti è discendente di Giovanni Battista Boetti, frate domenicano nato nel 1743 e misteriosamente trasformatosi in una leggenda caucasica, un condottiero che tenne testa ai russi a capo di un'armata di 80.000 soldati e per questo fu soprannominato al Mansur, il Vittorioso.) A Kabul fa ricamare su tessuti le date del centenario della propria nascita e della presunta morte, e commissiona la celebre Mappa del mondo in tela di lino ricamata, che potrebbe essere intesa come un invito a un atterraggio soffice rivolto al maggiore T. J. ‘King' Kong (Slim Pickens) in groppa alla bomba nel film Dr. Strangelove di Stanley Kubrick. Nel 1979 Kabul è invasa dai sovietici, il laboratorio delle ricamatrici afghane a cui Boetti si era legato si trasferisce in un campo profughi a Peshawar, in Pakistan, e continua a lavorare per lui. Saranno circa 200 le mappe realizzate in questi anni.

Ciò che avvicina Caturegli e Formica a Boetti è la concentrazione sul concetto e l'ampiezza dei temi, e anche quel senso di attesa prima – e di sorpresa dopo – nel vedere ritornare la propria idea interpretata da altri, portatori di un sapere tradizionale. Boetti scrive: «Il lavoro della Mappa ricamata è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che: il mondo è fatto com'è e non l'ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l'idea base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere.» La percezione della distanza è l'epicentro dell'arte concettuale e di tutte le forme d'arte che richiedono uno sforzo collettivo. Fra l'idea e la sua realizzazione c'è sempre uno scarto, una (presa di) distanza – in questo caso anche geografica e culturale – che si trasforma in un forte generatore di valore estetico.

E così si arriva alla terza risposta: la bellezza dell'imperfezione, che discende dalla seconda e ha a che fare con i nodi stessi. Uno degli strumenti che hanno a disposizione gli esperti di tappeti per riconoscere autori e scuole è proprio il difetto, quasi una firma per risalire all'area di provenienza, al genere, al periodo, e in alcuni casi al maestro dei tappeti in persona… Il difetto, col tempo, diventa motivo di pregio: è la prova della sua origine umana. Gli arazzi hanno avuto tre acerrimi nemici: la Rivoluzione francese, i costi proibitivi e soprattutto l'automazione tessile: da un cartone riprodotto meccanicamente può nascere solo un arazzo sterilizzato.

Il tappeto è la scomposizione di un'immagine in tanti nodi che si presentano come unità cromatiche minime di dimensione omogenea, e che ricordano perciò le tessere di un mosaico o i pixel di un monitor. A differenza di mosaici e monitor, il tappeto conserva per sempre la memoria del proprio farsi, del processo, di quei lunghi mesi e anni impiegati a fare nodi, rispettando le gerarchie tradizionali del lavoro, probabilmente rovinandosi la vista come gli intagliatori di diamanti, qualche volta intonando canti per dare ritmo e forse anche senso alla monotonia… Tutto questo lavorio, la fatica, il costo umano si fanno bellezza. E il tappeto acquisisce quella nota insuperata di mistero e duplicità: è ieratico, solenne come un mosaico, ma al tempo stesso difettato, umano, caldo, avvolgente. Grande nelle idee, impreciso nell'esecuzione – come lo è ogni vita, perennemente imperfetta.

Caturegli e Formica hanno scelto la lingua dei nodi perché consente di raccontare il mondo in chiave realistica, nella sua durezza problematica appunto (nodi e snodi), senza invenzioni ex machina che accorrano in sua salvezza. Per paradosso, ci spingiamo ad affermare che private del letto di nodi che le sorreggono, le loro immagini rischierebbero di essere disinnescate.


Una porta sul viaggio

Caturegli e Formica sono sempre stati in viaggio. In macchina, a diciannove anni, Beppe Caturegli ha compiuto un Grand Tour in Oriente: India, Pakistan Nepal, Afghanistan e Iran. Sempre in macchina, è partito dal Canada e ha raggiunto il Guatemala. E poi i lunghi viaggi di scoperta e di lavoro con Giovannella Formica, non di rado incontrando e lavorando con altri artisti: India, Nepal, Ceylon, Giappone, Senegal, Mali, Marocco, Tunisia, Turchia, Israele, Egitto, Siria, Burkina Faso, Mauritania, California, Messico… Beat generation, ove beat sta per il ritmo costante che ha scandito le loro partenze. Il viaggio come pratica di vita – il mito di Chatwin, che aveva viaggiato pochi anni prima di loro lungo gli stessi itinerari, cominciava a fare presa, canto del cigno prima della bulimia del viaggio di massa – non è solo scoperta dell'altrove lontano, ma anche riflessione sull'essenza del nomadismo, tecnica di rollio che asseconda le oscillazioni interiori e pellegrinaggio verso mete che si sa già di avere dentro. Da Firenze si sono sradicati fino a Milano, che hanno usato come hub per i loro lunghi viaggi professionali. Ancora oggi, seguendo stagioni migratorie personali, si spostano regolarmente per andare a vedere mostre d'arte o incontrare amici e clienti in ogni continente.

La linea di faglia fra tempo libero e tempo progettuale è quasi indistinguibile. Nei taccuini di viaggio di Giovanella Formica e Beppe Caturegli vediamo prender forma i progetti senza fretta, anche ritornando sui propri passi, alla ricerca di nodi di collegamento, e di snodi i cui fili si incontrano e si dipanano, e poi ancora si riannodano alla ricerca delle coincidenze. Per chi ha viaggiato in Oriente come loro, però, sarebbe riduttivo usare il termine coincidenze. Il premio del viaggiatore è vedere intensificarsi le coincidenze, vederle ripetersi, e veder germogliare una comprensione del mondo a un livello di gioco superiore.

In questo livello le barriere culturali si attenuano, i movimenti sono meno impacciati e censurabili, e nessuno può impedire che la pianta di un villaggio Bambara in Africa sia visualizzata con gli occhi di un architetto del Rinascimento… Ettore Sottsass scriveva, a proposito dei suoi viaggi in India: “I viaggi sono stati sempre una ricerca di conferme di zone del pensiero, come quando vado a Napoli, lì trovo una conferma, mi sento bene, mi dilato, sto tranquillo.”

La parte più fragile del viaggio è il congedo dal viaggio stesso, il rientro a casa, quando si decide che cosa tenere e che cosa buttare. Potremmo chiamare questa fase ‘verifica delle tesi comparative sviluppate nel corso del viaggio'. Che cosa abbiamo imparato degli usi e dei costumi di genti lontane? Quali delle mercanzie mentali che stiamo importando vale la pena di trapiantare e far germogliare a migliaia di chilometri di distanza? Che cosa dentro noi è cambiato, a vantaggio di chi non ha potuto compiere il viaggio e ci ha inconsapevolmente delegato a farlo? È la sintesi fra mondo conosciuto e mondo nuovo il momento più alto del viaggio. E probabilmente quello più rischioso. La retorica del selvaggio, o peggio del souvenir e del kitsch di viaggio, è in agguato. Caturegli e Formica ne sono indenni, il loro occhio è inclusivo, prensile, assimilatore, e non si limita ai dettagli.

I temi raffigurati nei loro tappeti hanno a che fare con alcuni macronodi del pensiero occidentale: l'ambiente e il consumo del territorio, la genetica e gli OGM, le catrastrofi, la teoria del caos, l'archiviazione e la mente, l'essenza chimica della vita. Sono per così dire istantanee dei problemi che stanno a cuore alle persone sensibili in Occidente. La loro estetica è tecnologica. In alcuni casi è non solo mutuata dall'ambiente digitale, ma addirittura trasferita tout cort dal monitor di un pc. Ma tutto ciò è raccontato nella lingua dei nodi fatti a mano che viene dall'Oriente. I loro tappeti mandano i bagliori di una sintesi reale fra Occidente e Oriente, e in questo sono nuovissimi.

Ogni traslazione sull'asse del viaggio fra Est e Ovest è anche un trasferimento nel tempo. Quando entriamo in una moschea coperta di tappeti o osserviamo una foto colorata a mano di inizio Novecento che raffigura un mercante di tappeti in Asia, abbiamo di fronte qualcosa che abbiamo già conosciuto. Quando visitiamo un campus nella Silicon Valley, che è come fare un viaggio in avanti, un trailer del nostro futuro, abbiamo di fronte qualcosa che abbiamo già immaginato. Il cortocircuito fra Ovest e Est, nei tappeti di Caturegli e Formica, è anche sintesi di passato e futuro, il tentativo di mettersi a cavalcioni delle onde del tempo e rimanerci il più a lungo possibile.

A Pasqua, in alcuni paesi del Centro America (ma anche a Camaiore, in Italia), viene mantenuta viva la tradizione dei tappeti di segatura, una processione di tappeti distesi a terra realizzati con una tecnica che ricorda quella dei mandala di sabbia. La collettività si stringe intorno a una memoria comune, fa un ripasso del proprio epos, si riallinea. I tappeti di Caturegli Formica possono essere letti anche come una processione di temi, un racconto. Dai loro viaggi nello spazio, nel tempo e nel pensiero nascono diari di bordo annodati, oggetti di arte globale, se così si può dire, in quanto pensati in viaggio e non in circostanze sedentarie. Senza il viaggio, molte cose resterebbero sepolte e non prenderebbero mai aria.


La mappa è nel nostro occhio

La cybergeografia si pone il problema di come rappresentare secondo criteri gerarchici i raggruppamenti di relazioni sul web. La rete è un territorio spaziale, lo dimostra l'abbondanza di termini geografici come sito, portale, navigare, vicoli ciechi… Ma non è un territorio lineare, ed è ampiamente inesplorato, pieno di trappole. Smarrirsi nella rete è la regola, probabilmente perchè ci preme solo arrivare il più velocemente possibile: il vizio della modernità. Riccardo Palma afferma che una cartografia della rete non è possibile, perché si procede per approssimazioni e qualsiasi mappa in questo ambito, nella migliore delle ipotesi, è destinata a nascere già vecchia prima di essere completata. Di queste mappe dice che sono una ‘zoologia fantastica': e anche a noi sembrano per paradosso organismi lenti a muoversi, vagamente inutili e rassegnati.

Questo tuttavia non significa che si possa abdicare all'impulso di disegnare mappe. La questione è che il bisogno di costruire una mappa precede nelle nostre coscienze l'esistenza dello stesso oggetto descritto, fisico o virtuale che sia. Prima ancora di prendere conoscenza con una città, abbiamo bisogno di riconoscerla attraverso i suoi landmark: la cattedrale, le mura, una porta per accedere al centro, la torre televisiva, la circonvallazione… È un bisogno automatico di trasformazione del disordine assoluto in un disordine meno acuto, più gestibile e rispondente a criteri razionali. Gli antichi Romani hanno costruito un impero sull'abilità (e sulla pazienza) nel sezionare, delimitare, assegnare, tracciare, classificare, nominare, intitolare, evocare, celebrare, caricare di simbologie e infine riportare sulle mappe le terre conquistate. Il reticolo di ogni mappa preesiste allo spazio a cui è sovrapposto.

Umbero Eco ha censito decine e decine di elenchi ossessivi nella letteratura mondiale, a partire dal catalogo delle navi e dalla descrizione dello scudo di Achille dell'Iliade. Anche la mappa è una lista, poiché vorrebbe essere esaustiva, e come altri modelli descrittivi può procurare vertigini e mal di mare. Le stesse vertigini da oppressione che si possono provare di fronte agli infiniti trofei di caccia (qualcuno dice 50.000 su 171.537 fra uccelli catalogati e imbalsamati) esposti nel castello di Konopiste, residenza dell'arciduca Francesco Ferdinando nei dintorni di Praga. O passeggiando nelle grandi e caotiche wunderkammern rinascimentali, con enfilade di sale e sale di oggetti delle tre grandi famiglie: Exotica, Naturalia e Artificialia. La mera elencazione può risultare frustrante quando abdica a una vera tassonomia, e si limita ad un generico Et cetera, lasciando per esempio aperta la questione se una tabacchiera intagliata del XVI secolo sia pregevole per il peso del pezzo di agata o per il lavoro dell'intaglio e l'inserimento dei rubini come occhi.

Caturegli e Formica ospitano nei loro tappeti mappe di edifici (ciclo africano Impronte/Ichnographia), codici di dna (Gattaca), immagini dall'alto (Tulips), mappe scaricate da internet (Map of the market)… I loro tappeti trasformano umili mappe, codici e protocolli informatici in eventi estetici, la cui funzione diventa simbolica, quasi mistica (la definizione di ‘misticismo contemporaneo' è loro), impregnata di un sentimento di affetto per le cose e la vita sul pianeta. Francesco Clemente, scrivendo di Boetti, dice di vedere in lui “una percezione profondamente emotiva del mondo, che rimane nascosta sotto una struttura di superficie concettualizzata, controllata”. Intuizione che estendiamo volentieri a Caturegli e Formica. In un'epoca in cui il telefono cellulare ti dice che strada imboccare, che tempo fa e che appuntamenti hai, mentre il pc ti mostra tutte le strade del mondo con schermate di realtà aumentata, una semplice mappa statica suscita tenerezza, mista a gratitudine. Come i fari marini, oggi diventati inutili per le navi, eppure ancora così utili come metafora linguistica.


I destini del pop

Pur con mille cautele, gli psicologi dell'infanzia raccomandano ai genitori di dire la verità ai bambini, la cui fantasia, se lasciata senza vincoli, alimenta paure sconvolgenti. Per il fatto stesso di sapere la verità, il mondo fa meno paura. Forse è anche dal bisogno di disinnescare la paura che nascono gli ingenui war rug durante l'invasione sovietica dell'Afghanistan. Sono stati scoperti dai viaggiatori-artisti italiani Enrico Mascelloni e Sarenco, e oggi sono diventati un fenomeno artistico da celebrare, studiare e collezionare. Le donne si sono riappropriate dei telai abbandonati e e con mani incerte ma grande vitalità e desiderio di racconto – come sa fare la terra dopo un'eruzione, quando si riappropria dolcemente del terreno occupato poco prima dalle lingue del magma – si sono reinventate un'economia, rivendendo ai soldati occupanti tappeti-souvenir che raffigurano arsenali, elicotteri, bombe dal cielo, gli immancabili kalashnikov, e anche le Twin Towers.

I due grandi generi iconografici del tappeto orientale sono il geometrico e il disegno curvilineo, o floreale. Entrambi sono un giardino di segni che rispecchia l'intrico di una vegetazione rigogliosa, un luogo ameno e riposante. Il war rug piange i caduti e chiama a nuove guerre: è una porzione di giardino calpestato. L'aspetto interessante e nuovo di questi tappeti è che, disintegrate le strutture sociali tradizionali a causa della guerra, si verifica un golpe iconografico, e sono le stesse tessitrici e a raccontare il giardino vero, non quello inventato. Il mezzo non è affatto neutro rispetto al messaggio. La stilizzazione tipica del tappeto ammorbidisce l'aggressività degli oggetti militari e li rielabora in un genere che si può ricondurre alla pop art.

C'è più di un filo che lega i tappeti di Caturegli e Formica ai tappeti naives delle donne afghane: la scelta di essere testimoni muti del tempo, senza occultare la verità, come il coro sommesso ma severo di una tragedia antica; la fine del tappeto come elemento decorativo e addomesticato, la sua emancipazione dalla ripetizione ossessiva di temi piacevoli; la sua utilizzazione come inquadratura del reale, come colonne di un quotidiano. Siamo di fronte a una nuova estetica del conflitto, o un'estetica della crisi, se vogliamo usare la definizione di Enrico Mascelloni, che calza a pennello sia con le guerre di bassa intensità che con la crisi delle borse. (Nella produzione pittorica di Caturegli c'è un quadro eloquente, Qhandhar, che mostra strutture metalliche di civiltà ostili sullo sfondo dei monti.)

Dai paesi post-sovietici dell'Asia Centrale è emersa a partire dalla fine degli anni '70 un'arte che opera la “dissezione dei meccanismi del potere” in modo limpido. Una delle star conosciute anche in Europa (o meglio, conosciute soprattuto in Europa) è Erbossyn Meldibekov, che ha esplorato a fondo il tema della violenza: suoi i fratelli con pistole in bocca rivolte all'interno, suoi i quattro zoccoli senza cavallo ma con un podio imponente, sue le figure umane realizzate con brandelli di carne à la Giacometti, sue le teste che sbucano dalla terra all'altezza del collo. Meldibekov ha ironizzato sui temi tradizionali, realizzando dei piatti in stile decorativo con cammelli che portano radar e missili (ciclo Pastan). L'ironia è in questo caso piuttosto diretta. E ha ragione Rosa Maria Falvo quando dice che quest'arte ci risulta più vicina quando al candore e all'onestà intellettuale è associata l'ironia.

Come è noto, il mescolamento dei piani fra arte colta e arte popolare genera un effetto ironico. La stessa ironia che ritroviamo nei tappeti di Caturegli e Formica, nel loro giocare con temi scomodi e nell'invito a ridimensionare le preoccupazioni individuali a favore di una visione più ampia e prospettica delle crisi planetarie. È vero, la loro ricerca gioca con temi scomodi, ma l'effetto parrebbe lenitivo per le angosce del contemporaneo. E questo perché si passa da un'estetica dura del conflitto a un'estetica morbida della consapevolezza. Nei loro tappeti si annidano i germi dei conflitti contemporanei, ma anche i loro anticorpi. È l'altra faccia dell'estetica del conflitto.

In relazione con questa estetica si pone l'uso del nero e del bianco, che irrompono nei tappeti di Caturegli e Formica. Il nero è stato poco usato nella produzione storica del tappeto, perché a parte certe sostanze tanniche di non facile estrazione (per esempio dalla quercia), si ottiene impiegando l'ossido di ferro, che col tempo inaridisce e rovina la fibra. Il bianco, in Oriente, è il colore del funerale, ed è sempre stato tabù per i tappeti.

Nei loro tappeti si annidano i germi dei conflitti contemporanei, o perlomeno di un futuro vicinissimo. Pensiamo ai codici genetici di Gattaca. E pensiamo anche alla serie dei Pneumatici, scanditi come un passo dell'oca grafico, le cui tracce astratte possono far pensare al manto di tigri meccaniche, ma di cui si può anche rilevare il carattere aggressivo e militaresco, che rimanda ai cingolati, alle scarpe con il ‘carro armato' capaci di incidere orme profonde e sferrare calci dolorosi. Industria automobilistica e industria del complesso militare non sono così distanti come si pensa. Alcuni dettagli delle nostre auto sono nati per rendere più funzionali blindati e anfibi.

L'impronta del battistrada compone un giardino di segni neutri. Se si tende l'orecchio, si sente un'eco sorda, non amichevole, come un rombo di conquista. Dopo il war rug, ecco il car rug! È un'immagine pop, come lo è il disegno della pelliccia di tigre riprodotta sui tappeti pakistani. La tigre incute paura, ma a forza di riprodurla sui tappeti diventa un character mansueto.

Occorre a questo punto fare una precisazione. L'essenza della pop art è trasformare oggetti e immagini di tutti i giorni, vicine e predigerite, in arte, senza alcuno sforzo per il fruitore. Le immagini di Caturegli e Formica lavorano invece sul registro del lontano, o meglio, del vicino/sconosciuto. Ci appaiono misteriose e, anche se usuali come la traccia di un battistrada, richiedono di essere capite, studiate, decifrate. Non hanno a che fare con la politica, il consumo, lo star system, la guerra e la violenza tout court, ma con le basi filosofiche della vita, la mente, le civiltà antiche. Suscitano domande, alcune delle quali destinate a rimanere senza risposte.


Tell us stories, please!

Caturegli e Formica scrivono a proposito dei tappeti marocchini: “La ragazza promessa in sposa, giovanissima, iniziava ad annodare un tappeto che in qualche modo la rappresentava, descriveva le sue ansie e i suoi desideri, e che veniva donato come una fotografia interiore al futuro marito.” Il disegno del tappeto è dunque un trampolino per immaginare storie. Lo conferma anche Tahar Ben Jalloun, quando dice che nella sua infanzia i tappeti sono stati un surrogato della musica: “I colori e i loro accordi mi incantavano. I motivi decorativi liberavano la mia immaginazione, dandomi ali per inventare storie d'amore, d'odio, di vendetta. Nel cielo alcune forme di nuvole isolate diventavano per me i personaggi con cui giocavo sul fondo blu…”

Dunque, i tappeti raccontano storie. Anzi, sono storie: non ci si stanca mai di loro, e intorno a loro ciascuno è libero di lasciarsi andare al gioco delle associazioni, dei rimandi e delle coincidenze. Come è successo a noi nello studio di Caturegli e Formica, di fronte a una cartolina con il celebre ritratto fotografico di Alighiero Boetti scattatogli da Giorgio Colombo mentre si tira indietro la pelle agli angoli degli occhi facendo finta di essere un cinese, come fanno fanno bambini. Ci siamo ricordati di un'antica terracotta precolombiana Cara sonriente (‘faccia sorridente') della collezione privata dell'artista Marco Vaglieri – una tipologia di piccole teste femminili che riproducono tratti del volto vagamente cinesi e deformi a lungo rimaste indecifrate, fino al giorno in cui si è capito che ritraggono bambine con la sindrome di Down, e che probabilmente questa circostanza fisica conferisce loro uno status estetico superiore, una bellezza da venerare. L'espressione di ebetitudine al confine con la beatitudine è la medesima, nella foto e nella terracotta, il sorriso tragico, l'innocenza dell'artista, il suo studiato candore…

Le storie ci aiutano a leggere la realtà con prudenza, e a non dimenticare che le cose che crediamo vere e incontrovertibili possono essere rovesciate in un istante. In questo atteggiamento di sostanziale rispetto verso il mondo, Caturegli e Formica dimostrano di nutrire una forte tensione etica, che non risulta difficile mettere in relazione con il percorso di maturazione nell'ambito dell'Architettura radicale a Firenze prima, e nello studio di Ettore Sottsass a Milano poi. A proposito di storie, viene in mente un capodanno passato fra amici insieme ad Ettore Sottsass e ai Caturegli e Formica. Eravamo seduti intorno a una bella e buona tavola, e d'improvviso Sottsass se ne esce dicendo più o meno così: “Avete mai visto una portaerei? Riuscite a immaginare le dimensioni, le tonnellate di ferro per costruirla, e il numero di cose e di persone che può portare? L'esistenza stessa di una portaerei è una violenza profonda sulla vita.” (Qualche anno prima aveva scritto: “Per lo meno il diritto di discutere esiste ancora.”)

A Caturegli e Formica chiediamo di continuare a viaggiare e di non stancarsi di raccontare, perché se le storie finiscono, allora il mondo si ferma, come sapeva bene l'incantatrice di re Shéhérazade. Un buon operaio può fare diecimila nodi in un giorno, forse dodicimila o tredicimila, e in un quadrato di dieci centimetri per lato ce ne stanno dai 2 ai 3mila. Ogni nodo è una lettera dell'alfabeto di una lingua docile che può raccontare mille e una storia. L'intelligenza del tappeto è proprio questa: procrastinare la fine del mondo.

Eugenio Alberti Schatz


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