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Č un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creativitŕ. Per chi ama scoprire anche ciň che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'č del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[3/4/1994]

Una bella storia di giornalismo e di giornalisti

Il prezzo della libertà nel capitalismo

Per vent'anni esatti ho diretto Il Giornale. Il Giornale è nato come una costola del Corriere della Sera, un giornale di grandi tradizioni e di assoluta indipendenza sul piano politico. Il suo editore non si intrometteva mai negli affari del Corriere, il giornale era per lui un'attività economica che gli procurava non pochi guadagni. Dopo la prematura scomparsa dei fratelli Crespi, la loro erede, chiamata la 'Zarina rossa', incominciò ad imporre alla redazione la propria linea politica di sinistra con tutte le tendenze distruttive del caso, sino addirittura alla simpatia nei confronti del terrorismo. Allora le trenta migliori penne del Corriere se ne andarono e fondarono Il Giornale. Non avevamo soldi: avere a che fare con noi era troppo pericoloso. La stampa italiana in blocco mi riteneva un fascista, un reazionario, un golpista, e via discorrendo. Tutto ciò si concluse con l'attentato contro di me, dal quale mi salvai per miracolo.

Poi il vento cambiò e si scoprì che avevamo avuto ragione noi. Come prima continuavamo a non avere soldi, ma il successo ci consentì di sopravvivere. Nessuno di noi, a partire da me, aveva capacità amministrative, e perciò quando venne in redazione un imprenditore che muoveva i primi passi e ci offrì i propri servigi, li accettai di buon grado. Questo imprenditore si chiamava Silvio Berlusconi. Il nostro accordo era che lui si occupasse di tutte le questioni finanziarie e non si intromettesse nella linea editoriale e politica. Questo patto funzionò alla perfezione sino all'autunno scorso, quando Berlusconi decise di entrare nella grande politica. Teneva in considerazione la mia opinione, mi aveva sempre stimato, perciò gli dissi: "Lascia perdere, non è nei tuoi interessi creare uno scompiglio ancor più grande di quello che già esiste nella politica italiana." All'inizio glielo dicevo a bassa voce, poi a voce alta, poi battendo i pugni sul tavolo, e infine lo scrissi sul Giornale: "Silvio, non farlo." Da quel momento non abbiamo più parlato. Berlusconi iniziò contro di me una guerra partigiana di bassa lega, accusandomi attraverso i suoi canali televisivi di essere diventato un comunista, di non esser più il Montanelli d'un tempo, di non appoggiare il suo programma.

Un bel giorno, senza dirmi nulla, Berlusconi venne in redazione, convocò i giornalisti e disse loro: "So che guadagnate poco. Potreste guadagnare molto di più se vi decideste a cambiare linea politica e linguaggio. Allora pubblicai sul Giornale il mio ultimo articolo, dichiarando di abbandonare la testata perché l'editore intendeva farne uno strumento della propria politica personale. Gli facevo tanti auguri per la sua nuova attività politica, ma ribadivo che non sarei mai diventato lo strumento di nessuno e che non avrei mai promosso la linea politica di nessuno, nemmeno nel caso mi trovassi a condividerla.

A poca distanza di tempo mi telefonò l'avvocato Agnelli, Presidente della FIAT e proprietario dei due principali giornali italiani, il Corriere della Sera e La Stampa, e d'accordo con l'attuale direttore del Corriere Paolo Mieli mi propose di dirigere il Corriere. Per me fu una rivincita, un trionfo. In quelle stesse ore vennero da me 70 giornalisti del Giornale, i due terzi, e mi dissero: "Tu per noi non sei un semplice direttore, ma un padre di famiglia, e come padre di famiglia devi pensare ai tuoi bambini." Allora risposi ad Agnelli che ero prigioniero della mia famiglia e che avrei cercato una nuova dimora per tutti.

Pensando a quale tipo di organizzazione darci, decisi: mai più padroni, solo azionisti, ciascuno dei quali non possa detenere più del 4% del capitale complessivo. Le azioni sono state comprate da tutti, iniziando dai giornalisti per finire con gli autisti. Ho trovato un editore che si disse pronto a rischiare un capitale proprio sul mio nome. Così è nato il nuovo giornale La Voce. La nostra indipendenza politica consiste in un'assoluta equidistanza da qualsiasi partito. Ma anche rispetto all'assetto economico dell'Italia abbiamo assunto una posizione particolare. Il capitale italiano è di stampo mafioso, quasi tutte le operazioni finanziarie sono governate da un potente gruppo di 5-6 persone. Noi siamo al di fuori di questo gruppo, che gradualmente e in tutti i modi cerca di ostacolarci. Ma questo gruppo non ha fatto i conti con un elemento importante: il successo presso i lettori. Dunque, chi è il padrone? Il pubblico. Il pubblico che ci sostiene, il pubblico che ci dà i soldi per continuare il nostro progetto. Ecco, questa è la grande novità della Voce. Anche chi non ci ha capito, intuisce che siamo riusciti a sottrarci sia alla pressione politica che a quella del grande capitale. Quanto dureremo? Non so rispondere. Abbiamo provato a fare la stessa cosa che i colleghi inglesi dell'Indipendent. Loro non ci sono riusciti. Nel nostro caso, a giudicare dalle prime reazioni dei lettori, ci sono delle possibilità.

Dovremo affrontare una competizione durissima. Questo è il capitalismo, signori, e a questo proposito mi trovo a condividere la frase di Churchill "È il sistema peggiore, ad eccezione di tutti gli altri." Il capitalismo è una giungla, una giungla aspra e crudele, e in Russia questo devono capirlo. Di tutti i modelli conosciuti è quello che ha maggiori effetti di stimolo, ma proprio per questo ha bisogno di freni. Noi non vogliamo distruggere il capitalismo, ma correggerlo sì. Ci accingiamo a dare battaglia nel tentativo di dimostrare che le piccole e le medie imprese, il meglio dell'energia produttiva e imprenditoriale italiana, riusciranno a scrollarsi di dosso il giogo del capitale di stampo mafioso. E se con i miei 85 anni dovessi perdere, perderei combattendo sotto un degno e nobile vessillo.

Indro Montanelli
(ritradotto dal russo da Eugenio Alberti Schatz)


Mstislav Rostropovich senza ritocchi

Ho incontrato Rostropovich dal vivo per la prima volta l'autunno scorso. Non era in in una sala da concerto con un frac ma era seduto vicino a me, vestito semplicemente: eravamo entrambi ospiti della trasmissione televisiva Senza ritocchi. La televisione russa ama organizzare incontri in cui personalità famose fanno da bersaglio per il tiro incrociato dei giornalisti. Scopo dell'operazione è quello di rimuovere lo strato di lacca, la tipica patina dei personaggi arrivati, di incontrarli senza ritocchi, appunto. Ma che cosa c'entrava con questa trasmissione un musicista che nessuno da noi ha mai ritoccato, anzi? La conduttrice della trasmissione mi ha raccontato piena di orgoglio il suo scoop: Rostropovich aveva accettato di partecipare in esclusiva a questa trasmissione. Il Maestro emanava un senso di arte, di spirito arguto e di prontezza, una grande bontà e rispondeva a tutte le domande come se le conoscesse da molto tempo. Tutti noi giornalisti, letteralmente conquistati dal suo fascino, al termine della trasmissione siamo andati in processione a chiedergli un autografo e un appuntamento per l'intervista. Rostropovich ha esaudito tutte le richieste di autografi ma ha invece cortesemente sorvolato sulle richieste di incontri separati. Quando gli ho teso la mano, non mi è nemmeno passato per la testa di chiedergli un incontro.

La televisione, si sa, è una grande forza. La registrazione della trasmissione è stata mandata in onda diverse volte e una signora di mia conoscenza, moglie del famoso compositore Vjaceslav Artemov (Rostropovich ha eseguito le sue composizioni in America in diverse occasioni), dopo avermi visto a più riprese in una così brillante compagnia, mi telefona e mi promette di combinare un incontro con il Maestro. "Mstislav Leonidovich aspetta una Sua telefonata." Faccio il numero, risponde la voce affabile di Rostropovich che fissa un appuntamento alle otto del mattino del giorno dopo, mi detta l'indirizzo. "Sa dov'è la Casa del Compositore?" Ci mancherebbe altro, è un quartiere elegante e silenzioso nel centro di Mosca, quante volte mi sarà capitato di passarci.

Eccomi là, le otto sono ancora lontane, mi trovo poco distante dalla Casa del Compositore, un tozzo edificio a più piani di epoca staliniana che ospita l'Unione dei Compositori (l'augusta istituzione a cui si deve il nome di tutta la casa). Passeggio nervosamente e ripasso le domande per l'intervista, e d'improvviso mi rendo conto che il numero civico non è affatto quello dettatomi al telefono da Rostropovich (13). L'11 è una chiesa, il 15 pure, il 13 è come se non esistesse. Mi catapulto sui rari passanti che portano a spasso il cane, senza successo. I telefoni pubblici a Mosca sono un problema pare irrisolvibile. Mi precipito in una banca, in cui una donna delle pulizie magnanima mi permette di usare il telefono. L'orologio non lo guardo nemmeno, ho troppo paura, le otto sono passate da un pezzo. Quando finalmente esco dall'ascensore (effettivamente la Casa del Compositore si affaccia su due strade, inutile dire che l'ingresso del 13 era sul retro, sulla strada parallela), la porta della casa è aperta e Rosotropovich mi sta guardando con un'espressione di inequivocabile disagio. Il salotto dalla tappezzeria verde alle pareti è pieno di ceste di fiori, il retaggio del concerto della sera precedente, sul tavolo sono sparse alcune figurine in osso. "Sto facendo ordine, tutti gli oggetti che avevo lasciato in custodia agli amici stanno ritornando" - è la voce del padrone di casa e capisco con il terrore in gola che mentre io mi agitavo alla ricerca della casa, lui aveva ingannato il tempo. Quando Rostropovich e sua moglie Galina Vishnevskaja sono stati privati della cittadinanza sovietica, le autorità hanno cercato di togliere loro anche l'abitazione. Almeno in questo lo Stato ha fallito, e l'indirizzo dei due famosi artisti non è cambiato.

Per iniziare la conversazione mi viene in soccorso il giornale Pravda, che fedele al glorioso passato aveva dedicato al musicista un articolo dal titolo "Vergogna, Maestro!", in cui si lamentava che i giovani violoncellisti sono costretti a suonare per pochi spiccioli nei sottopassaggi, mentre il maître non fa nulla in loro aiuto.

- Avrei potuto insegnare loro per vent'anni! -, si stupisce Rostropovich - ma mi hanno buttatto fuori dal pase e hanno fatto di me un nemico del popolo. Con un unico svolazzo di penna di Brezhnev il destino della mia famiglia è rimasto segnato. Le mie due figlie si sono sposate con uomini stranieri. Anche se il nonno e la nonna, che godono di una certa influenza in seno a tutta la famiglia, sono riusciti a far battezzare tutti e cinque i nipoti con nomi russi... Non ho alcuna preoccupazione individuale eccetto una: le sorti del mio paese, la Russia. Il giorno più felice della mia vita, accanto agli altri giorni felici della mia vita come il matrimonio, la nascita dei bambini, la fine del Conservatorio, è stato il 22 agosto del 1991, quando Boris Eltsin, dopo il fallito golpe, ha dichiarato fuori legge il Partito comunista e da una tribuna ha proclamato la nascita della democrazia. Allora ho capito che siamo finalmente liberi.

- Ma l'euforia è passata alla svelta. E se l'intellighenzia compensa le difficoltà di tutti i giorni respirando l'aria della libertà, che cosa ci guadagnano da questa libertà i contadini, la maggioranza della popolazione nel paese?

- La sensazione di libertà è importante non solo per le élite intellettuali. Sono stato spesso nelle nostre campagne, dove ho molti amici. Quando i miei concerti e i miei viaggi all'estero venivano annullati, ho percorso la Russia in lungo e in largo, sino a Magadan. Che cosa serve ai contadini la libertà? Per sentirsi uomini. Non per lanciare proclami né per fare opposizione al governo quando non ne hanno voglia, ma per essere padroni a casa propria. Per un certo periodo ho avuto la possibilità di suonare un violoncello Amati proveniente da una collezione statale. Il violoncello per me è tutto: è me stesso, le mie corde vocali, la mia anima, attraverso i polpastrelli ho imparato a trasmettere tutti i miei sentimenti. In quell'occasione ho capito di non poter suonare su uno strumento da collezione, abbracciarlo, metterlo a parte dei miei segreti, sapendo che un bel giorno può arrivare qualcuno e dirmi: "Rostropovich, Lei ha già una carriera alle spalle, dia il violoncello a questo bravo giovane." Grazie tante, meglio uno strumento di qualità inferiore ma tutto mio. Penso che il rapporto che i contadini hanno con la terra sia simile al mio rapporto con il violoncello: hanno il mio stesso bisogno di libertà per farne ciò che vogliono, sapendo che nessuno potrà più sottrarre loro la terra. Il diritto di spostarsi liberamente deve essere assicurato a tutti, indistintamente. Una volta ho fatto una battuta affermando che per 75 anni gli artisti sovietici sono stati simili a degli uccellini a cui si consentiva di cantare su un unico albero. Gli uomini che fanno il bene devono essere liberi di portarlo in giro per tutto il mondo. Certo, finché siamo vivi la felicità si raggiunge a fatica. C'è una cosa che però mi consola: oggi la vita è dura non più perché rincorriamo un mito, ma perché i nostri figli possanno trarre un respiro di sollievo.

- Forse la musica può venirci in aiuto: Alfred Schnitke pensa che la musica sia capace di prevedere i cambiamenti del futuro, di anticipare realtà che non possono essere colte dall'orecchio comune. Che cosa ci riserva la musica contemporanea, per esempio quella dello stesso Schnitke, di cui lei ha suonato a Mosca in prima esecuzione l'ultima sinfonia, insieme all'Orchestra sinfonica di Washington?

- È vero, la sua musica raggiunge vette lontane, a cui io posso avvicinarmi solo con l'intuizione. Nella Sesta sinfonia di Schnitke ci sono molte pause, la musica è come lacerata, a brandelli, eppure sprigiona una forza magnetica straordinaria. Contiene risonanze ultraterrene, una dimensione cosmica, è una musica altra. Riguardo a Schnitke devo dire che in generale è un compositore geniale, e voglio raccontare un fatto che spero possa essere capito. Il suo Secondo concerto per violoncello, soprattutto l'ultimo movimento, è stato per me una scoperta assoluta. L'ho eseguito con un'immedesimazione totale. Quando mi pareva che l'orchestra mi coprisse e non mi si sentisse più, dentro di me, nel profondo, stavo tessendo una tela misteriosa, e quando riemergevo all'esterno sentivo che l'orchestra si immergeva a sua volta per farmi posto. D'improvviso Alfred mi dice: "Sai, è una musica post mortem". Ecco, forse è proprio così che dovrà risuonare ciò che rimarrà dopo di noi, il nostro spirito, ciò che verrà dopo..."

- Che cosa rappresenta per lei Shostakovich, che in realtà ha scoperto in America?

- È un grande della statura di Beethoven. L'hanno talmente perseguitato, stretto in un angolo, ma il suo genio non faceva altro che acquistare forza, e ad ogni ennesima umiliazione rispondeva con la sua musica, a nome di tutta la nazione, forse di tutta l'umanità. La sua musica è una cronaca delle emozioni di tutta una nostra vita.

- Quali sono i suoi gusti in materia musicale?

- Non li coltivo per partito preso: un direttore d'orchestra non può permetterselo. In passato ho studiato composizione, ho composto due concerti per pianoforte ma poi ho abbandonato questa attività. Forse, se non mi trovassi ad eseguire musiche composte da grandi autori, avrei potuto suonare qualcosa di mio. Invece mi permetto di tormentare il mio pubblico solo con una bagatella ironica per violoncello che dura tre minuti. Devo essere sincero: nel momento in cui suono un pezzo lo benedico, e mi convinco che nessuno ha mai composto nulla di meglio. Per questo ho un repertorio tanto vasto, sono un vero poligamo.

- Esiste una differenza fra il pubblico occidentale e il pubblico in Russia?

- È la stessa che passa fra il nostro popolo e gli altri. In Russia, all'ombra del sistema comunista, o fascista o come lo si vuole chiamare, abbiamo avuto dei grandi come Shostakovich nella musica, Solzhenitsyn nella letteratura, Sakharov sul piano morale che si sono opposti alla macchina del totalitarismo, sapendo che sarebbero andati incontro a sconfitta certa, e che invece hanno vinto. Penso che questo sistema in qualche misura abbia anche influito sulla sensibilità dell'ascolto musicale. Mi ricordo che al Conservatorio si andava come in un tempio. Anche in Occidente vi sono molte persone appassionate di musica, ma in questa passione vi è un elemento di autocompiacimento élitario, di posa per prestigio. Un momento piacevole della vita quotidiana, nulla di più. Un americano, per esempio, non tralascerebbe mai di fare una buona cena dopo il concerto. O se gli venisse sonno, non esiterebbe ad andarsene a metà concerto.

- Quali sono gli stati d'animo per lei più stimolanti?

- Naturalmente per la pienezza della vita di un uomo è necessaria la più ampia varietà di emozioni. Nel mio caso, forse è la tristezza il sentimento più creativo. Quando sono allegro so già in partenza che suonerò peggio: senza che io possa farci nulla, mi viene fuori una forma di disinvoltura, di sicurezza. Quando invece sono triste, esco sul palco come per una confessione musicale, e dall'anima sgorga un torrente molto più generoso.

- Che cosa significa per lei beneficenza, attività alla quale lei dedica non meno tempo che alla musica?

- In ogni paese dove tengo concerti pago le tasse. I miei concerti per beneficenza sono la mia tassa a Dio. Quando venni espulso dal mio paese, dopo un periodo di tali soprusi da spegnere qualsiasi pensiero di speranza, mi rifugiai in Occidente senza un copéco in tasca. E d'improvviso incominciò la mia seconda vita, la gioia nuova di essere ascoltati, di essere trattati bene, di vivere nel benessere. Questa felicità inaspettata, per essere completa, bisogna saperla dividere con gli altri. E non tanto per piacere a Dio, quanto per soddisfare un bisogno intimo della propria anima.

- Dopo 17 anni di lavoro con l'Orchestra di Washington, dove intende trasferire la sua illuminata dittatura?

- È così, il direttore d'orchestra è un vero dittatore. Ma per ora non ho di questi progetti. Sto progettando insieme al mio amico Valerij Gergjev, direttore d'orchestra stabile del Teatro Marinskij di Pietroburgo, l'allestimento di Lady Macbeth di Shostakovich. Mi preparo a dirigere la Chovanscina di Mussorgskij al Teatro Bolshoj. Il regista sarà Boris Pokrovskij, a mio parere uno dei migliori registi d'opera di oggi.

... Il telefono si mette a squillare. Rostropovich sta già dettando a qualcuno il suo indirizzo a Parigi, nella zona di Trocadero, dove sarà domani. Per darmi un'aria mondana tento di dire che conosco questa zona di Parigi. Il Maestro mi lancia un'occhiata veloce, come ad un orchestrale che si sta per licenziare, e mi congeda in pace.

Olga Martynenko
(Traduzione di Eugenio Alberti Schatz)


Il fascicolo top secret su Solzhenitzyn

L'11 dicembre 1988 Aleksandr Solzhenitsyn ha compiuto 70 anni. Per la prima volta l'intellighenzia sovietica più aperta, malgrado le autorità, si incontrò pubblicamente o meglio, glasno - per usare l'espressione allora tanto amata - per festeggiare questo anniversario. L'associazione più emancipata di tutte, l'Unione dei Cineasti, si accollò l'onere dell'organizzazione, e il giornale più temerario, Moskovskie Novosti si impegnò a darne notizia ai lettori.

Doppio cordone di polizia, una sala straripante, i discorsi che ti facevano sussultare dall'emozione. "Che cosa devo scrivere di questa serata" - chiesi al mio direttore Egor Jakovlev (allora direttore di Moskovskie Novosti - n.d.t.). "Ma quello che vuole", - mi liquidò con un cenno della mano, forse avendo già intuito le nubi che si stavano addensando. Poi, dopo aver tagliato il mio pezzo ed eliminato gli epiteti del tipo "grande" o simili, andò al Comitato Centrale del PCUS. "Che cosa hanno detto? Sciocchezze, non pubblicare niente, ecco cosa hanno detto".

I dettagli di questo intrigo dietro le quinte si sono chiariti solo di recente, quando nel numero 73 della rivista Kontinent (che prima veniva pubblicata a Parigi da Vladimir Maksimov e dal 1992 si è trasferita a Mosca) sono uscite 68 pagine con i materiali d'archivio del Comitato Centrale sull'affaire Solzhenitsyn. Il 13 dicembre 1988, a distanza di un giorno dalla serata incriminata, fu redatta una Nota del Dipartimento per l'Ideologia del Comitato Centrale del PCUS che recitava: "Il Dipartimento ha operato per far rientrare l'ampia campagna collegata al settantesimo compleanno di Solzenitsynn, ispirata da diverse personalità della cultura." L'Unione degli Scrittori si piegò alla legge, gli architetti annullarono la serata già programmata, mentre i cineasti non rinunciarono alla serata, e perciò "il Dipartimento per l'Ideologia del Comitato Centrale del PCUS prese in considerazione la possibilità di far presente agli organi direttivi dell'Unione dei Cineasti la necessità di un atteggiamento più responsabile e politicamente misurato verso questioni ideologiche così complesse."

Nel 1988 il Comitato Centrale aveva imparato l'uso del congiuntivo, ma nel 1964 e poi ancora tante volte aveva usato esclusivamente l'imperativo. Fra l'altro, gli inizi non lasciavano prevedere nulla di male. Il 6 luglio 1962 Aleksandr Tvardovskij, redattore della rivista Novyj Mir, nota per la sua autonomia di pensiero, scriveva al "caro Nikita Sergeevich" (Kruscjov - n.d.t.) di "un racconto di straodinario talento", opera di uno scrittore sconosciuto, il cui nome promette di diventare uno dei "grandi nomi della nostra letteratura". Ma a causa della "non ordinarietà del materiale" Tvardovskij chiede a Kruscjov consiglio e approvazione. Il quale, come si sa, era un profondo conoscitore della letteratura e diede il proprio benestare. Dopo la pubblicazione sul numero di novembre del 1962 di Novyj Mir del racconto Una giornata di Ivan Denisovich iniziò la marcia trionfale del suo autore nei cuori e nelle teste dei lettori, e contemporaneamente la sua via crucis, pedissequamente registrata nei documenti del Comitato Centrale e del KGB.

Il primo tuono scoccò nel 1964, quando gli ammiratori di Solzhenitsyn presentarono la sua candidatura al concorso per il premio Lenin, a quei tempi l'onorificenza più alta. Il Dipartimento per l'Ideologia del Comitato Centrale strigliò quelli che avevano oltrepassato i limiti, spazzò via tutti i giudizi considerati "unilaterali" su Ivan Denisovich e riprese con severità il Comitato per il Premio Lenin, reo di "deficienze sostanziali", che si ridussero poi al fatto che l'eco della discussione sul racconto di Solzhenitsyn si era propagata "al di fuori del Comitato". È curioso che uno dei personaggi insigniti del premio Lenin in quello stesso anno fu Mstislav Rostropovich, il cui nome emergerà a più riprese nell'affaire Solzhenitsyn, sebbene in tutt'altro contesto (ospitò nella propria dacia lo scrittore caduto in disgrazia quando cercava un nascondiglio). La lunga storia della sorveglianza dell'autore dalle idee diverse, delle persone che in segreto leggevano e diffondevano le sue opere, i rapporti del Comitato Centrale e del KGB sugli umori dell'ambiente letterario, sul sequestro della corrispondenza di Solzhenitsyn proveniente dall'estero e via discorrendo, potrebbe essere letta come un giallo avvincente, se solo non fosse così scopertamente sporca e imbevuta di viltà. Tutti i documenti sono classificati con il timbro "Segreto". Segreto è ciò che dicono i colleghi su Solzhenitsyn, segreto che Solzhenitzyn scrive a Tvardovskij di aver terminato il romanzo Agosto 1914. Alcune carte però sono addirittura classificate "Top Secret". In via "Top Secret" il capo del KGB Andropov riferisce al Comitato Centrale "la reazione di Solzhenitsyn alla sua espulsione dall'Unione degli Scrittori". Ma dove sta il segreto? Lo scrittore non aveva mai nascosto le opinioni negative su questa associazione. Il segreto è che la "reazione" di Solzhenitsyn è stata documentata registrando le sue conversazioni telefoniche, esattamente come nel suo romanzo Nel primo cerchio.

Sempre in via "Top Secret" viene data indicazione agli ambasciatori sovietici all'estero di sensibilizzare i "partiti fratelli" sugli intrighi di Solzhenitsyn. L'elenco dei partiti (in numero di 16) è solo "Secret". In compenso è "Top Secret" l'informazione del KGB sul "contenuto del rapporto dell'ambasciatore italiano a Mosca ai suoi superiori" del 22 febbraio 1974. L'ambasciatore non racconta nulla di tanto terribile "ai suoi superiori", si limita a riportare che i provvedimenti presi contro Solzhenitsyn (ossia la sua espulsione dall'URSS) sono per lui del tutto inaspettati. Ma attraverso quali canali Andropov venne a sapere del contenuto del rapporto? Top secret.

Il Segretario del Comitato provinciale di Dnepropetrovsk del Partito Comunista Ucraino, nel gennaio del 1974, scrive in "Segreto" al Comitato Centrale del PCUS Sui giudizi dei lavoratori della provincia in merito all'attività di A. Solzhenitsyn e A. Sakharov: i lavoratori bollano entrambi di infamia e si sorprendono come mai "non vengano adottate misure che pongano un freno alle loro attività antisovietiche". I lavoratori furono ben presto rassicurati: Solzhenitsyn fu immediatamente mandato in esilio in Germania, Sakharov, sebbene con sei anni di ritardo, fu esiliato nel suo stesso paese. Ma non dobbiamo meravigliarci del minatore, del tornitore e anche dell'Ingegnere energetico capo di una fabbrica di macchinari metallurgici, che impersonavano i "lavoratori", se anche la scrittrice canadese Mary M. Dowson (la nota al Comitato Centrale è dell'allora ambasciatore sovietico in Canada Aleksandr Jakovlev, oggi Presidente della Compagnia radiotelevisiva statale Ostankino), dopo aver letto i libri di Solzhenitsyn, li consideri menzogneri, pur essendo per sua stessa ammissione non a conoscenza dei fatti. E ringrazi il Signore di non averli conosciuti, questi fatti!

Uno dei documenti più impressionanti ("Segreto") è quello che Andropov invia al Comitato Centrale il 10 novembre 1974 Sull'attività di Solzhenitsyn all'estero. Viene fuori che Solzhenitsyn, residente a Zurigo, non si preoccupa di organizzare la propria vita quotidiana, cosa che "non di rado porta a dei conflitti fra lui e la moglie", mentre il suo modo di vita chiuso, "l'assurdità delle sue idee politiche, i tratti negativi del suo carattere - egoismo, presunzione, avidità etc. - gli hanno alienato le simpatie di molti ammiratori e hanno portato all'isolamento la sua famiglia". Da dove ha attinto l'onnipresente KGB queste informazioni? Non dovremo forse pensare alla moglie dello scrittore?

Fermiamoci qui. Il rapporto sul modo errato di festeggiare il 70° compleanno nel 1988 è l'ultimo documento tramandatoci dall'archivio. Poi la diga si ruppe, e nella patria dello scrittore uscirono Arcipelago Gulag, Nel primo cerchio, Divisione cancro e molto altro ancora che il Comitato Centrale tanto temeva e che senza il loro consenso era stato ormai letto da tanto tempo, seppure in scomode fotocopie. La paura del Comitato Centrale non era infondata. Solzhenitsyn è tornato in patria, ma dove sono coloro che lo hanno perseguitato e mandato in esilio? La risposta non è così semplice: alcuni si sono spenti nell'oblio, altri addirittura prosperano.

Olga Martynenko
(Traduzione di Eugenio Alberti Schatz)


Il nuovo romanzo di Georgij Vladimov 'Il generale e la sua armata'

Lo scrittore russo Georgij Vladimov vive in Germania e scrive un romanzo. Tutto regolare. Hemingway scrisse il suo Immovable Feast a Parigi, mentre Dostoevskij trovò il soggetto per il suo Giocatore nelle case da gioco di Wiesbaden. Tutto ciò accadeva in altri tempi, in altre dimensioni. Vladimov nel 1983 si reca in Germania su invito dell'Università di Colonia per tenere delle lezioni e a distanza di un mese, per decreto di Andropov, viene privato della cittadinanza "per azioni incompatibili con l'elevata immagine del cittadino sovietico". Quando questa elevata immagine si incrina, a Vladimov viene restituita la cittadinanza, ma non l'appartamento. Così, grazie alle convulsioni del capitalismo russo continuiamo come sempre a ricevere le cose migliori dall'estero, compreso il romanzo Il generale e la sua armata, la cui versione per i giornali (200 pagine di testo) è in corso di pubblicazione nei numeri di aprile e maggio del giornale Znamja.

Georgij Vladimov si considera uno scrittore démodé. E non ha torto: scrive in una prosa russa classica, direi virile. La virilità è una categoria sfuggente, come la femminilità, eppure la cogli al primo sguardo, alla prima riga: professa gli ideali del bene e della giustizia, indicatori certi di una vera letteratura. L'autore non si concede di abbassare il livello al di sotto dell'opera precedente: ogni nuovo lavoro è più perfetto del precedente. Forse per questo la sua produzione letteraria non è vastissima: il racconto Il grande minerale e il romanzo Tre minuti di silenzio, pubblicati dalla rivista Novyj Mir di Tvardovskij e come si dice, stroncati dalla critica per due caratteristiche innegabili: la presenza del talento e l'assenza della menzogna. In esilio Vladimov ha portato a termine Il fedele Ruslan, apparso già in piena perestrojka sulle pagine della rivista Znamja: è la storia tragica di un pastore tedesco allenato a non far rompere i ranghi ai detenuti in un lager, morto per la propria incapacità di adattarsi ad una normale vita da cani quando il lager venne chiuso. Dopo Una giornata di Ivan Denisovich è forse la cosa migliore che sia mai stata scritta sul tema dei lager, e non per nulla quando le bozze del racconto fecero il giro di Mosca, si pensava che l'autore fosse Solzhenitzyn. Non so a chi dei due sia diretto il complimento.

Nel 1990 il giornale Moskovskie Novosti pubblicò un brano scelto dall'autore de Il generale e la sua armata, in cui si raccontava del generale Vlasov. L'intenzione era di rompere l'ennesima breccia nella mitologia russa sulla guerra, il nome del "traditore Vlasov", passato dalla parte dei tedeschi, era infatti un tabù assoluto. Ma la pubblicazione andò ben oltre quest'intenzione, così come ogni grande letteratura è al di sopra della politica. Nel nuovo romanzo Vladimov continua la tradizione della "prosa militare", a cui forse possono essere ascritte le pagine più alte della nostra letteratura. Questo filone è stato vessato senza pietà e il manoscritto del romanzo di Grossman Vita e destino è stato addirittura arrestato e portato alla Lubjanka (KGB) insieme alle sue carte a carbone. La prosa "soldatesca" e "caporalesca" fu sospettosamente soprannominata "verità da trincea", con l'argomentazione che gli autori (fra l'altro tutti reduci dal fronte) non sapessero guardare oltre l'orizzonte della propria trincea. Dagli uffici dei burocrati la vista, naturalmente, è di gran lunga più ampia.

Mezzo secolo dopo la guerra Georgij Vladimov, classe 1932, scrive una prosa "da generali", come Lev Tolstoj scrisse una prosa "da feldmarescialli". Non siamo andati a disturbare l'ombra illustre a caso. Il fatto è che Tolstoj è lo scrittore preferito di Vladimov e indirettamente è presente nel suo romanzo: Guderian firma il suo primo ordine di ritirata a Jasnaja Poljana, seduto alla scrivania dell'autore di Guerra e Pace. Il respiro, la potenza della scrittura di Vladimov, l'acutezza della sua vista e l'ampiezza del suo cuore fanno sì che l'autore veda il senso ultimo di questa battaglia unica nella storia, in cui la Russia pagò per la Russia.

Vladimov osserva la crudeltà e l'empietà della guerra con gli occhi del suo protagonista, il generale Kobrisov (figura inventata, a differenza degli altri personaggi Zhukov, Vatutin, Krusev e Vlasov). Ma lo scrittore annota anche ciò che a un generale può sfuggire: l'avidità con cui la dottoressa militare dell'ospedale da campo aspira la sigaretta nel suo grembiule di tela incerata, l'arrivo dei camion all'ospedale con i loro carichi di gémiti, come si fanno i riporti di saldatura sulla corazza sforacchiata dei carri armati, come vengono raschiati dalle torrette degli stessi carri i brandelli di carne umana rimasti appiccicati. Anche il generale, mentre pianifica le sue manovre, ha ben presente davanti a sé le piccole figurine grigie sulla neve che, soffocando con tutte le forze il terrore della morte, il dolore, le ferite, con grida e imprecazioni si levano per dare l'attacco e compiono il proprio maledetto mestiere di uomini.

Perché questo paese destinato alla sconfitta vinse? Perché si seguiva la tattica che il generale Kobrisov fra sé e sé chiama "tattica russa dei quattro strati": tre strati di carne umana vengono distesi per colmare i dislivelli del terreno e il quarto avanza strisciandoci sopra? Anche per questo. Lo stesso Kobrisov viene allontanto dal comando della brillante operazione da lui ideata per liberare Kiev (nel romanzo Predslavl'), perché aveva rifiutato di espugnare una testa di ponte inutile, risparmiando 10.000 vite umane. Nell'esercito sovietico si risparmiavano solo le munizioni. Gli intrighi dei generali, l'invidia, il desiderio di piacere al Comandante in capo (Stalin - n.d.t.), che era peraltro un'attività quotidiana se solo non avesse causato in questo contesto milioni di funerali, i giochi spietati di "Smersch" ('morte allo spione,' soprannome dato al KGB - n.d.t.), che aveva avvolto in una rete di delatori l'intero esercito, dalle telefoniste al cosmonauta. Eppure vinsero. Vinsero coloro che il Comandante in capo, per lo spavento o per astuzia, d'improvviso chiamò "fratelli e sorelle" e loro effettivamente si sentirono tali. Vinse il generale Kobrisov. La sua storia è stata scritta e riscritta infinite volte. Ma il paese, come rileva con tristezza Vladimov, che ama così tanto cambiare le carte in tavola al proprio passato, non ha futuro. E tanto più importante è il merito dell'autore che non solo salva l'onore del generale Kobrisov, ma la letteratura russa in toto, la quale finalmente vede il tanto atteso grande romanzo in grado di darle una scala di misura, un nuovo punto di partenza.

Davvero la vita riserva intrecci non meno soprendenti di quelli dei romanzi. Vladimov, il cui padre fu fatto prigioniero nel '41 nell'assedio di Kharkov e scomparve nei campi di concentramento tedeschi, dovette svelare il mistero della vittoria russa proprio nella terra degli sconfitti, che generosamente gli avevano offerto un tetto. E se cambiassimo di posto i termini dell'equazione? Negli anni '70 Vladimov incontrò Heinrich Böll. Allora in Occidente c'era una gran paura dei carri armati dell'est. Ma Böll era magnanimo: le pietre dell'Europa sono sacre, non si può versare altro sangue su di esse, e se dovessero venire i soldati russi armati di mitra ce ne staremmo seduti a bere in santa pace la nostra birra. Lei forse avrà dimenticato, gli chiese Vladimov, la scritta dei chioschi di birra a Mosca: "birra terminata"?

Olga Martynenko
(Traduzione Eugenio Alberti Schatz)


L'eden sigillato - Confessioni di un ebreo

Non credo si possa affermare che i conti con l'antisemitismo in Russia siano chiusi, ma è certo che esso sta scemando, soprattutto perché non viene più alimentato dall'alto. C'è anche un altro fattore da considerare, risultato degli anni cupi in cui lo stesso antisemitismo ha imperversato: centinaia di migliaia di ebrei hanno lasciato il paese, indebolendo 'le fonti stesse dell'irritazione'. Anche se il vero antisemita saprà sempre scovare un ebreo (o inventarselo).

In un modo o nell'altro, dunque, il pubblico dei lettori russi è maturato e può accogliere normalmente il romanzo del prosatore di Pietroburgo Aleksandr Melikhov La cacciata dall'Eden - Confessioni di un ebreo, pubblicato nel mese di gennaio di quest'anno sul giornale Novyj Mir. Ancora in forma di manoscritto, l'opera si era già aggiudicata il premio Nabokov, istituito dall'Unione degli scrittori di Pietroburgo. In quell'occasione il romanzo era stato accolto da una critica non esaltante, ma nemmeno irritata, più o meno spaccata in due partiti. Alcuni consideravano il libro valido per forma e contenuto, altri non ravvisavano in esso meriti particolari. Questo contegno può apparire anomalo se solo ricordiamo che negli anni del disgelo Vassilij Grossman, autore del romanzo Vita e destino (1960) fu arrestato, oltre che per altri peccati, per aver sollevato la scomoda questione ebrea. E se ricordiamo che in piena perestrojka si guardava di sbieco ai libri relativamente innocenti dell'autore lituano Grigorij Kanovich, in cui si traccia una sorta di ricostruzione dei mestechko ebrei scomparsi in Lituania, un museo etnografico a cielo aperto. Kanovich voleva sviluppare le vicende dei suoi personaggi fino ai giorni nostri, ma poi la Lituania se ne andò, insieme a questi propositi.

E venne il quarantasettenne Aleksandr Melikhov, candidato al titolo di dottore accademico in scienze fisico-matematiche, il primo nella letteratura russa contemporanea (ex-sovietica) a porre al centro del suo romanzo un uomo di nome Lev Jankelevich Katzenelenbogen, con tutti i suoi 'mali': un papà ebreo, una mamma russa, una moglie russa e i figli che Ljova (Lev) chiama inquilini. Talvolta si possono comprendere le critiche di chi rimprovera all'autore che il romanzo è tirato troppo per le lunghe e abbonda di quelle che a scuola veninvano chiamate le 'digressioni liriche', quando lo scrittore, quasi non avesse sufficiente fiducia nei personaggi, ha fretta di integrarli con le proprie parole. Ma ciò che rende il romanzo di Melikhov un'opera letteraria è il dolore. Un dolore ancora più terribile di quando Ljova da bambino, per stupidità, fece esplodere una granata fatta in casa, perdendo un occhio. Questo dolore spiega le lungaggini, le ripetizioni: l'autore ha bisogno di pronunciare a voce alta tutto quanto per essere compreso da se stesso e dagli altri, ma non ci riesce, la risposta non coincide, e forse non esiste nemmeno alla fine di quel manuale banalmente soprannominato vita.

La perdita dell'occhio come metafora di un'invalidità morale? Assolutamente no. È una parte di quel paradiso dell'infanzia, l'Eden, quando tutti erano uguali di fronte allo squallore del reale, in una remota provincia dimenticata, nei giorni terrificanti del periodo staliniano, quando felicità voleva dire avere già solo un sole che splendesse in cielo. Il protagonista da adulto, lui sì si sente moralmente invalido, un bell'uomo in stile à la russe, uno scienziato di talento e intelligente, dai molti saperi, fra cui la consapevolezza della proria estrazione di serie b. La confessione dell'ebreo è la confessione di una coscienza spaccata, costantemente sottoposta a umiliazioni ? nel piccolo e nel grande, di uno pronto a mandar giò molto di tutto ciò pur di non essere un estraneo, ma che alla fine va incontro ad un fiasco colossale. Essere ebrei, conclude il nostro protagonista, non è una nazionalità, ma un ruolo sociale. Il ruolo dell'intruso, contrassegnato da un unico marchio universale: non essere riconosciuto come 'uno dei nostri'.

Il romanzo di Melikhov è a tutti gli effetti moderno, con alcuni elementi di postmoderno (nel tessuto della narrazione si inseriscono acutamente frequenti citazioni). Le pagine migliori sono gli opprimenti ricordi d'infanzia di Ljova, quando il bambino per la prima volta si scontra con l'impossibilità di sciogliersi nel mondo da lui tanto amato, fatto di cui in seguito darà questa spiegazione: così come a guardia dell'organismo umano sono posti i fagocíti che estromettono i microbi, così gli antisemiti sorvegliano l'organismo unitario del Popolo (con la P maiuscola), opponendosi all'intrusione di particelle estranee.

Levando gli occhi dal romanzo, possiamo senza paura di sbagliare classificare come fagocíti le altisonanti testate di stampo 'patriottico': il giornale Zavtra, le riviste Nash sovremmenik e Molodaja Gvardja, che smascherano senza sosta le macchinazioni della comunità ebraica mondiale, la quale in combutta con tutto l'Occidente sogna di sfaldare, distruggere, inghiottire etc. la Russia. (Stanislav Kunjaev, poeta e direttore di Nash sovremennik, esprime tutta la sua inquietudine a questo proposito nei suoi versi: "Dagli abbracci delle banche svizzere... difendici, Comitato Centrale e Lubjanka, non c'è nessun altro che possa salvarci!")

Più vicino al nostro tema è un esempio del tutto limpido e inequivocabile. Nel numero di febbraio di Nash sovremennik, a titolo di esperimento, è stato pubblicato un lungo articolo di Arkadij L'vov, nato e vissuto a Odessa, oggi emigrato negli Stati Uniti, che discetta sulle radici ebraiche nella poesia di Mandel'stam. Nell'introduzione all'articolo Kunjaev gli obietta: o Mandel'stam è un ebreo (c'è forse qualcuno che lo mette in dubbio?), oppure un poeta russo non può avere radici ebraiche. In altre parole, tutte le sofferenze di una coscienza che aspira a far parte di un altro cosmo restando però sé stessa, vengono rigettate in blocco.

Questa sofferenza è il nocciolo del romanzo di Melikhov. La 'cacciata dall'Eden'' (non come titolo di romanzo ma come fenomeno del reale) può essere interpretata in senso più ampio. Applicandola, sul piano esistenziale, all'attuale vagabondaggio di cervelli rimasti isolati, o sul piano del quotidiano a quei russi che dopo la caduta dell'impero si sono ritrovati oltrefrontiera e sono diventati una minoranza, gli estranei. La vicenda di Ljova Katzenelenbogen, a cui l'ingresso all'Eden è stato sbarrato per sempre, potrà ritornare utile a molti. Ma è poi mai esistito questo Eden? Dopo la morte del padre, un fedele 'edenista' che secondo la definizione di Ljova riportava tutte le manifestazioni di antisemitismo a singole figure di mascalzoni, il figlio scopre fra le sue carte un pezzo di carta con il titolo di un libretto che egli stesso, per testamento, avrebbe dovuto leggere dopo la morte del padre. Questo libretto si rivela essere un album di fotografie sui pogrom contro gli ebrei durante la guerra civile, di cui si sono macchiati sia i rossi che i bianchi. Gli agghiaccianti dettagli della barbarie e della violenza esulano dall'ambito letterario e in generale dalla capacità di comprensione dell'uomo. Ma lasciamo la parola all'autore: "Forse gli ebrei non sono capaci di fare altrettanto? ? si chiederà il lettore, e io annuirò amaramente col capo: 'Sono capaci...' Ed è proprio qui il punto più terribile, che nel nome dell'Unità tutti sono capaci di tutto. Ne sono capaci gli ebrei, i francesi, gli zulù, gli inglesi, i mongoli, i georgiani, gli armeni, i turchi, i singalesi, gli aztechi, gli spagnoli, gli italiani, i tedeschi, i cafri, i greci, i romani, i goti, i trogloditi... Vi prego, continuate la vostra sacra missione, adempite ai vostri obblighi verso i vostri Popoli, però senza di me, senza di me, io ne ho abbastanza."

Lo scrittore (e il suo protagonista?) forse ne hanno davvero abbastanza. Perciò concediamogli la possibilità, alla fine del romanzo, di ritirarsi in un qualche parco, qualche isola in cui dlle statue di marinai o di pionieri in gesso gli ricordino l'Eden perduto dell'infanzia, mentre noi fermiamoci a riflettere per un istante su che cosa siamo capaci. Gli ebrei, come i re, è la corte a farli.

Olga Martynenko
(Traduzione Eugenio Alberti Schatz)


Il 'grande muto' parla solo per denaro

La frase che Lenin aveva distrattamente lasciato cadere 'fra tutte le arti quella del cinema è per noi la più importante' (il noi voleva dire nella Russia analfabeta che non sapeva leggere), non solo per i decenni a venire ha abbellito le sale dei cinematografi e i discorsi alle riunioni solenni, ma ha addirittura predeterminato la politica statale in questo campo. Anche il compagno Stalin amava il cinema, prediligendo – a dire il vero, in buona compagnia di Hitler – Marica Rock. Il suo fedele agitprop (Dipartimento per la propaganda) osservava con molta attenzione l'evoluzione del cinematografo, correggendolo di tanto in tanto.

Così come per le altre arti, sebbene meno importanti, l'occhio dell'agitprop era ben esercitato: ad essere cacciati erano i migliori, ossia quelli meno comprensibili e dunque potenzialmente pericolosi. In letteratura erano la Akhmatova e Zoscenko, nella musica Shostakovich e Prokof'ev, nel cinema Eizenstein e il regista Lukov. Il film di Lukov Bol'shaja zhizn' ('La grande vita') dedicato alla vita in miniera si meritò addirittura un decreto del Comitato Centrale. Di tutto il film rimase solo la deliziosa canzoncina 'Dormono i kurgan tenebrosi', sebbene a controbilanciare questo film 'sbagliato' fosse stata girata la pellicola Donetzkie shakhtjory ('I minatori di Donetzk'), in cui il carbone veniva estratto in miniere luminose e ben attrezzate.

Mi ricordo il mio profondo stupore quando, mentro facevo pratica nel giornale Sozialisticeskij Donbass ('Il Donbass socialista') e ricevetti l'incarico di scrivere su un giovane minatore che aveva deciso di dare alla patria montagne di antracite, scesi con entusiasmo a bordo di una gabbia pericolante e rumorosa in una galleria, e invece di cattedrali sotterranee illuminate a giorno, mi trovai di fronte un quadro descritto molto tempo fa da Zola nel suo romanzo Gérminal. Non fu difficile trovare il giovane minatore, ma i suoi sogni erano molto diversi. Il mio eroe aveva due desideri. Il primo era di andare in vacanza al mare. Il secondo di andarci senza la moglie. Ma sto divagando. Il cinematografo sovietico era controllato con una doppia morsa, da una parte il Goskino (qualcosa di simile a un Ministero della cultura), dall'altra l'Unione dei cineasti, sulla carta un'associazione di autori ma in realtà un organo con la funzione di pastore spirituale delle cinepecorelle smarrite. Senza naturalmente contare tutti i redattori e i censori presenti in tutti gli studi cinematografici.

È difficile dire come mai sia stato proprio il cinema la pietra scagliata che ha fatto smuovere la valanga della perestrojka nell'ambiente dell'intellighenzia. Alcuni sostengono che fosse a causa del carattere collettivo del processo cinematografico. È possibile, ma anche i kolkhoz, strutture collettive per definizione, ancor'oggi fanno fatica a sciogliersi: dove si potrà andare a rubare mangimi, parti di ricambio per le macchine ecc.? Comunque sia, nella primavera del 1986, al Quinto Congresso dell'Unione dei cineasti dell'URSS avvenne la rivoluzione: tutti i 'cinegenerali' vennero rovesciati (venne persino bocciata la candidatura di Nikita Mikhalkov che aveva tentato di prendere le difese di uno di loro, Sergej Bondarcjuk) e alle cariche direttive vennero eletti solo personaggi senza alcuna macchia di sottomissione e complicità con il potere. Il nuovo Segretario Elja Klimov (le sue pellicole più note sono Agonja, 'Agonia', e Idi i smotri, 'Vai e guarda') dichiarò in un'intervista all'autore di queste righe che nuova finalità dell'Unione sarebbe stato un 'cinema assolutamente libero'. Furono tolti dagli 'scaffali' e immessi nel circuito della distribuzione il famoso Pokajanie ('Il pentimento') di Tengiz Abuladze, per merito soprattutto di Eduard Shevarnadze, allora Primo segretario del Comitato Centrale del Partito comunista della Georgia, i film di Aleksej German e Kira Muratova, il film Komissar ('Il commissario') di Aleksandr Askol'dov e altri ancora, rimasti chiusi nel cassetto per motivi ideologici. Fu messo a punto un nuovo 'modello' di cinema che dava piena libertà di movimento a tutte le fasi della lavorazione cinematografica.

Il 'grande muto' si mise a parlare. Lo smascheramento del passato, le piaghe del presente, i delitti del regime totalitario divennero quasi gli unici temi del nuovo cinema di fiction e documentario, culminando nel film di Stanislav Govoruchin dall'eloquente titolo Tak zhit' nel'zja ('Così non si può vivere'). Una volta scemata l'ondata dello 'scoperchiamento', si usò la libertà da poco acquisita per esplorare un'altra zona sino ad allora tabù: il sesso e la violenza. Con tutto lo zelo e l'entusiasmo dei pionieri. Su questo fronte si distinsero soprattuto gli studi indipendenti, gli studi commerciali che nascevano velocemente come funghi e con la stessa velocità scomparivano. Per fortuna le loro produzioni erano in pochi a vederle, ma questo non turbava più di tanto i realizzatori, poiché molti di loro più che altro 'ripulivano' i soldi di qualcuno.

Tutto ciò è cambiato con le riforme del 1992. I prezzi sono saliti alle stelle e non si trovamo più risorse per girare film. Con la caduta dell'Unione Sovietica si è dissolta anche l'Unione dei Cineasti. C'è poco da rimpiangere l'impero, ma per il cinema dispiace. Si trattava di un'associazione davvero straordinaria, sempre una testa avanti ai politici, assolutamente immune dagli atteggiamenti sciovinistici per i quali andava famosa invece l'Unione degli scrittori.

Il tempo della politica è passato, ora tocca all'arte e il 'cinema assolutamente libero' si è rivelato impreparato. Il congresso dell'Unione dei cineasti (ormai solo della Russia) che si è tenuto a Mosca alla fine di aprile è stato detto 'antiquinto congresso', e non solo perché sono state offerte scuse ufficiali ai 'cinegenerali' offesi nel 1986, ma soprattuto perché gli attuali maestri del cinema non hanno nascosto di voler tornare all'abbraccio dello Stato: non certo per nostalgia della censura, ma per soldi. "Siamo poveri come topi di chiesa" –, si è lamentato uno dei dirigenti dell'Unione, mentre il Primo Segretario Sergej Solov'jov ha spiegato il motivo di questa povertà: "Secondo gli attuali budget di produzione un'asse di legno grezza costa più del lavoro di uno scenografo."

Lo Stato di oggi non è più quello di una volta e di tutte le sue ricchezze destina alla cultura solo lo 0,3 % del bilancio. E sebbene durante il congresso è stato letto integralmente il testo del decreto del Presidente Eltsin sulla politica protezionistica in favore del cinema russo, per bocca di un alto funzionario statale è stato anche chiaramente detto ai cineasti che lo Stato d'ora in avanti finanzierà film, talenti e mani senza tenere conto se si appoggino a studi di produzione statali oppure indipendenti. Per inciso, il famoso sociologo Daniil Dondurej, direttore della rivista Iskusstvo kino, la pensa diversamente e non vede la crisi, ma un naturale quanto radicale processo di modernizzazione del cinema su tutti i fronti: produzione, distribuzione, pubblico. Nel quadro di questo rinnovamento, ritiene che la Russia sia rimasta la più grande potenza cinematografica in Europa. Lo Stato russo finanzia non meno film di quanto facciano i paesi europei e gli USA. (Forse è perché sono in molti ad essere rimasti tagliati fuori da questo processo di modernizzazione che Dondurej non è riuscito a portare a termine il proprio intervento a questo congresso.)

Qualche cifra. Nel 1992 sono usciti sullo schermo 178 film, di cui lo Stato ne ha sostenuti 19. Nel 1993 sono stati rispettivamente 137 e 26. Nel 1994 si stanno girando circa 80 pellicole, di cui lo Stato ne sostiene 19 interamente e qualcuna parzialmente. Questo significa che il capitale privato ha prodotto ben 270 film in due anni. Un'altra annotazione: quest'anno al Festival di Cannes per la prima volta sono stati selezionati due film russi, Utomljonnoe solntze ('Sole ingannatore') di Nikita Mikhalkov e Asja i kurocka s zolotymi jaitzami ('Asja e la gallina dalle uova d'oro'). Entrambi sono stati girati con capitali francesi.

Olga Martynenko
(Traduzione Eugenio Alberti Schatz)





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