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È un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creatività. Per chi ama scoprire anche ciò che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'è del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[15/9/2000]

Nilufar


Il castello dei destini annodati


Nel 1984 il regista georgiano Otar Iosseliani realizza in Francia il suo primo film in Occidente, I favoriti della luna, che definisce lui stesso una “commedia astratta”. Con la grazia e la maestria di un burattinaio di pupi siciliani porta davanti alla macchina da presa le vicende di tantissimi personaggi, in un plot ad incastro che sorprende ad ogni passaggio. I destini di un bombarolo, la sua fidanzata esperta in manicure, un maestro anarchico, un ispettore di polizia, un ladro gentiluomo, un cantante punk e infiniti altri personaggi si intersecano come ruscelli intorno alla storia dei due veri protagonisti – un servizio di porcellane cinesi del XVIII secolo e un ritratto di nudo del XIX secolo. Una trama lucida che ricorda il gusto per la geometria sentimentale delle Affinità elettive, collocando oggetti, persone ed azione su un'unica linea narrativa orizzontale. E che fa pensare, nella sua struggente poesia della memoria, al nocciolo d'ambra che racchiude il fotogramma congelato di un moscerino: la terribile bellezza del destino.

Iosseliani è sempre stato un mago dei giochi ad incastro, dei trompe-l'oeil alla Escher applicati alle storie dei personaggi. Ma in questo film affronta il tema da un punto di vista inedito, e mi pare, poco frequentato: dal punto di vista degli oggetti. Gli oggetti d'arte, che sono capaci di scaldare il cuore degli uomini e di elevare il loro spirito, sono dei veri acceleratori di destini. Al cinema come nella realtà. Non passano indifferenti, attraversano la strada agli uomini, li influenzano e li fanno deflettere dalle loro traiettorie di vita.

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Così come fanno gli uomini con gli oggetti. Erigendosi a taumaturghi, li strappano dalla sorte bruta della materia per dare loro una funzione, un'estetica, e talvolta anche un'anima. Avviandoli, cioè a un destino.

Il francese Daniel de Montmollin (Frère Daniel della comunità Taizé) è un maestro vasaio ben conosciuto dai suoi colleghi europei, e a coronamento della sua carriera ha scritto Il poema ceramico, un compendio di filosofia per affrontare la materia grezza estraendone manufatti di valore. Ecco cosa scrive: “... il vasaio, mentre riproduce nel suo forno parte delle condizioni naturali dell'evoluzione dell'argilla, finisce per sottrarla al suo ciclo di metamorfosi, la strappa al tempo geologico che è ciclico per introdurla in un tempo ceramico, lineare, che invece è a dimensione umana.”

L'uomo rompe la ciclicità e crea la linearità. Una sorte ciclica diventa dunque lineare e schizza verso l'alto seguendo una tangente il cui angolo dipende solo dal talento, dalle risorse e dal coraggio del suo artefice. A questo gesto di sfida verso l'alto segue sempre, però, per le leggi di natura, una ricaduta, un fato. E la pretesa dell'uomo di rompere l'incantesimo del ciclo può rivelarsi illusoria, poiché, come i suoi figli, i prodotti della sua arte e del suo ingegno sono destinati a sopravvivergli e a imboccare vie imperscrutabili.

L'uomo contro la ciclicità. La natura contro la linearità. E il destino che soddisfa entrambi: creando il miraggio della perpetuità, e instancabilmente confondendo le carte, sconvolgendo i piani, creando nuovi destini ad arte. Si può dire così che ogni oggetto è plurilineare, e come il gatto delle fiabe vive diverse vite parallele.

Un tappeto tessuto ad Ashkhabat per la iurta di un ricco mastro falconiere del Tien Shan potrà bruciare; potrà passare ai figli falconieri per generazioni; potrà essere utilizzato in una piccola moschea di villaggio che non ha i soldi per commissionarne uno; potrà essere rubato e venduto a un mercante che lo rivenderà a un fotografo di New York. Oppure potrà essere usato per avvolgere il corpo del suo padrone quando affronta l'ultimo viaggio nella terra. Ciascuno di questi destini è probabilmente già scritto nella trama e nel disegno, anche se solo uno emergerà soverchiando gli altri.

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Ogni oggetto può essere letto come un orologio (pensiamo alla datazione nucleare con il metodo del Carbonio 14), come un segnale della cultura materiale del tempo, come un tassello della storia archeologica o dell'arte o della critica, ma può anche essere sfogliato come un diario, come un erbario in cui rimangono affissi gli amori, i pensieri, le scelte, le guerre di chi li ha avuti fra le mani, di satrapi, poeti, feudatari, mercanti, collezionisti, scienziati, sciamani, ladri, falsari, viaggiatori e profeti. Di amici, parenti vicini e lontani.

Ogni oggetto porta con se la potenza dello scambio e la memoria del luogo che l'ha prodotto.

Italo Calvino, che ha censito tutte le città possibili per placare la sete di potere del Kublai Khan, dedica molta attenzione alla storia che gli oggetti portano con sé. Eufemia è la città delle storie, dove “i mercanti di sette nazioni convengono a ogni solstizio ed equinozio... non solo a vendere e a comprare si viene a Eufemia, ma anche perché la notte intorno ai fuochi tutt'intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice – come lupo, sorella, tesoro nascosto, battaglia, scabbia, amanti – gli altri raccontano ognuno la sua storia...”. Olivia è la città industriale “ricca di prodotti e guadagni... di palazzi di filigrana con cuscini frangiati ai davanzali delle bifore”, il cui rovescio è “la nuvola di fuliggine e d'unto che s'attacca alle pareti delle case... i rimorchi in manovra schiacciano i pedoni contro i muri”. Gli abitanti di Clarice, che “più volete decadde e rifiorì...”, nei momenti di pestilenza e degradazione conservano gli oggetti preziosi del passato per rivivere una storia più gloriosa.

L'oggetto è leva di scambio in assoluto, è un bene simbolico oltre che materiale, e motivo di intreccio con la vita di popoli vicini e lontani (e più sono lontani, più l'oggetto sarà esotico).

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Cesare De Seta ci ricorda che in un contesto arcaico il fatto estetico non è concettualizzato come tale, ma vive innanzitutto come fatto funzionale, sociale, tecnico, religioso. A differenza che in Oriente, in Occidente si è consumato lo strappo fra il cosiddetto oggetto d'uso e l'oggetto artistico (l'arte produce oggetti inutili). L'evo moderno produce la distinzione fra utile e bello. La tradizione umanistica discrimina le Arti maggiori da quelle minori. Nasce la figura dell'artista intellettuale come Leon Battista Alberti, progettista sulla carta che non ama sporcarsi le mani in cantiere, in opposizione alla figura del Brunelleschi, che per edificare la sua cupola vive giorno e notte in cantiere con i suoi operai. Nelle stessa epoca, nel paese del Sol Levante, l'arte della cottura della tazza da tè conosce il suo massimo splendore. Per noi suona come un paradosso: il massimo della sofisticazione applicato a un oggetto basico e quotidiano come la ciotola.

L'industrial design, come utopia del creare oggetti utili e belli insieme, è un tentativo di sanare questo strappo, oltre che una necessità – quella di garantire un ricambio del gusto a produzioni e consumi di massa crescenti. Il design risulta comunque essere più vicino alle arti maggiori (pensiamo al moralismo funzionalistico del Bauhaus), e ricorda proprio l'architettura, quell'arte applicata nobile che più di altre ha svolto un ruolo di collegamento fra arti maggiori e minori. Forse per questo i designer il più delle volte sono architetti, e sicuramente per questo il lavoro del designer è quello di un progettista del paesaggio domestico.

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Claudio Magris, in una recente intervista a Fosco Maraini, cita Kipling: “Occidente e Oriente non si incontreranno mai.” È una questione molto complessa. Ci sono dei fenomeni che indicano la presenza di forti correnti sotterranee. La miniaturizzazione dei prodotti, per esempio, uno dei grandi trend stilistico-funzionali dell'industria degli ultimi trent'anni, legata anche a case sempre più piccole e più costose, non può forse essere messa in relazione con una passione tutta giapponese per la miniatura e il rimpicciolimento?

Correnti di questo genere, in realtà, vi sono sempre state. L'impero cinese e le poleis greche si parlavano attraverso gli oggetti (uno specchio cinese d'argento datato V secolo a.C., con tanto di dragone furibondo, è stato ritrovato in un'isola greca, imbarazzando non poco l'ambiente accademico). Nell'estate del 1999 ho incontrato in Kyrgyzstan un signore inglese che si è trasformato in artigiano di iurte... in plastica. Abita e Londra, le produce imitando alla perfezione la struttura originale dei nomadi: fra i suoi clienti migliori vi sono gli artisti, che montano queste iurte trasparenti nel proprio giardino di casa, trasformandole in pratici studios.

E poi ci sono consuetudini simili in tutte le civiltà: quella per esempio di trasformare lo spazio domestico in un piccolo tempio della memoria, in cui sia oggetti d'uso che oggetti d'arte sono museificati: le famiglie piccole borghesi continentali iniziano già a fine Ottocento ad appendere paioli e setacci di rame manifestando nostalgia per la cultura contadina in declino; i russi espongono nelle vetrine del salotto, accanto alle ceramiche praghesi e ai servizi in legno giapponesi, i libri come bene promiscuo (materiale, culturale e bibliofilico); i nomadi delle steppe espongono armi, dipinti e tappeti.

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Fosco Maraini risponde con acutezza a Claudio Magris che in fondo, a far da tramite fra le civiltà, sono sempre stati “i devianti, i più simpatici.” I più inquieti, perennemente insoddisfatti e sognatori di professione.

Nina Yashar non solo fa incontrare epoche, stili e contesti differenti ma soprattutto avvicina il polo Est al polo Ovest: è una deviante ardita, nomade nello spirito e un po' irriverente, come tutti coloro che hanno deciso almeno una volta nella loro vita di compiere un grande viaggio senza sapere che cosa ci fosse ad attenderli dall'altra parte. Come Marco Polo, Cristoforo Colombo, Ibn Battuta, il fiorentino Francesco Pegolotti (che nel 1355 percorre la Via della Seta e rimane sbalordito) e molti altri. Come i veri galleristi di una volta, che sapevano scommettere sul proprio fiuto. Come i grandi mercanti di una volta, i primi veri spiriti laici di tutti i tempi. Al ritorno da ogni viaggio stanno già progettando il prossimo. Chi potrà fermarli?

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... A Eudossia, che si estende in alto e in basso, con vicoli tortuosi, scale, angiporti, catapecchie, si conserva un tappeto in cui puoi contemplare la vera forma della città....Perdersi a Eudossia è facile: ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filo cremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro ti fa entrare in un recinto color porpora che è il tuo vero punto d'arrivo....


Eugenio Alberti Schatz


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