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È un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creatività. Per chi ama scoprire anche ciò che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'è del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[12/5/2001]

Marco Vaglieri

Il piacere della finzione condivisa
Riflessione sull'ultimo video di Marco Vaglieri, seguita da una conversazione con l'artista


Seguendo a ruota John Hemingway
Following John: 12 minuti di surreale pedalata in Brianza – Marco e il suo amico John Hemingway ripresi da una telecamera digitale montata sul manubrio che oltre a restituirci dal basso la fuga del verde delle fronde come un effetto di 2001 Odissea nello spazio e a documentare i grotteschi abbigliamenti tecnici dei ciclisti amatori (aiutato dal rumore delle corone, li vedo come mosche ronzanti), registra il respiro sempre più affannoso di Marco, meno allenato di John. Marco è l'intervistatore e in questa sua crescente fatica c'è tutta la difficoltà e il dramma del dialogare oggi. Non è affatto vero che si tratti di una dimensione naturale per l'uomo. Le domande suonano stentate, le risposte evasive e talvolta superficiali (ma che si pretende, stanno pedalando). La ragione del fatto che sono lì a sudare è che i due hanno scelto di compiere in parallelo un'azione fisica, per quanto simbolica. Lo scambio è fisico. E come un grido doloroso emerge tutta la pochezza dello scambio. Il sorriso che muove è feroce. Ma pensa un po' se oggi due persone devono bardarsi così, inventarsi una passione comune e sacrificarsi in un'improbabile gita fuori porta per estrarre vicendevolmente miseri brandelli di logos?

Ha proposito del video Marco ha scritto: “Quando ho girato Following John ero interessato a far avvenire e registrare un dialogo tra due persone in un momento particolare. Così il video è stato girato sotto sforzo in quanto i due dialoganti, l'autore e John Hemingway, sono impegnati in un duro allenamento ciclistico. Il pretesto di parlare di Ernest Hemingway fa lentamente affiorare il ritratto di John, nipote di Ernest e anch'esso scrittore. Le parole di John dimostrano quanto le eredità familiari e culturali condizionino la nostra esistenza e ci rendano partecipi delle difficoltà di gestire il rapporto con chi ci ha generato e, nel caso di John, quanto una parentela possa essere ingombrante al punto di incarnare un mito universalmente riconosciuto. Ma è proprio la relazione tra i due dialoganti che ridefinisce questo mito riconsegnandolo a un presente molto meno astratto ed eroico in cui le persone fanno i conti con se stessi e con un secolo, il Novecento, che ha logorato come nessun'altro le certezze dell'Occidente.”

In coda all'intervista segue un montaggio di persone in movimento accelerato, accompagnato da sottotitoli illuminanti. Li trascrivo per i lettori di Don Juan nel caso non li riuscissero a decifrare via Internet: anche da soli formano una texture poetica in cui si mischiano malinconia e dignità, echi di Svevo, Bianciardi e Majakovskij.

Quante persone dietro di me.
Quanti davanti a me.
Mia madre + mio padre = io.
Io – mio padre – mi amadre = io.
Sono fatto di morti e di vivi.
Di illusioni che mi fanno muovere.
Di miti, che sono opera mia.
Nei miti cerco la cura per la mia angoscia.
Faccio sempre sempre le stesse cose.
Più faccio, più ho, più sono bravo, più sono.
Fatico a sopportare le mie mediocrità.
Non posso che andare incontro diritto alla mia faccia.
Alla fine dell'ultima strada.
Sarò uno che di sì.
Se sto vicino a me stesso non mi perderò.


Generalizzando, si può dire che oggetto del racconto è lo smarrimento di un mondo che non ha capito le proprie radici perché le ha gettate nella pubelle del '68. Che ha commesso hùbris spezzando le catene delle generazioni e non ha saputo vedere nei propri genitori o progenitori altro che impedimenti alla propria affermazione o ostaggi dello star system, invece che alleati. Strappare è affascinante, ricucire è un lavoro tedioso e umile, e poi resta sempre la toppa. Facilmente qualcun altro potrebbe dire che oggetto del video è tutt'altro, e questa poliedricità è nelle sue intenzioni ed è benvenuta.

Resta sullo sfondo la genialità nel prendere in giro tutte le interviste del mondo, nello scoprire la fragilità dei copioni con cui le persone si ostinano a porsi verso l'esterno, nella farraginosità dei cliché di una conversazione che non decolla mai veramente. L'effetto è di un sorprendente sorpasso del reale, e siccome siamo abituati ad una vita che ha ormai monopolizzato l'uso del surreale, non è poco riuscire a costruirlo ad arte. Sono dell'opinione che il registro dell'assurdo, dopo gli inglesi dell'Ottocento e i russi del Novecento, mantenga intatta la sua dirompente carica di candore. Quel candore che come poche altre cose riesce ancora ad accendermi il carburatore del pensiero.


Alla ricerca di un linguaggio non solipsistico
Marco ha intrapreso da diversi anni un'indagine artistica rigorosa sulle condizioni alle quali un prodotto o un'operazione d'arte vivono dopo la loro nascita, una volta calate nella vita reale. Il che significa sostanzialmente due cose. La prima è che il prodotto del'artista non viene concepito come risultato statico e compiuto, progettato prima in uno studio e promosso poi in una galleria o in un catalogo, ma contiene già in nuce le istruzioni perché la sua fruizione sia dinamica, aperta alle variabili sospese nel contesto, nell'epoca, nella congiuntura artistica e intellettuale e soprattutto nelle emozioni di chi si pone di fronte a questo oggetto. La seconda, strettamente connessa alla prima, è che l'artista si mette in gioco come persona. Detto così, nulla di nuovo, gli artisti che altro fanno se non mettersi in gioco e per regola delle parti pagare un tributo al mito del taumaturgo insofferente dei lacci borghesi (a partire da quella circolarità fra arte e vita inventata dai dada e da Kurt Schwitters, che nel suo Merzbaum collezionava biglietti del tram usati)? Tuttavia, quando questa operazione esistenziale viene portata in scena, il risultato non è né scontato né noioso, sebbene venga fatto da decenni e con sempre più frequenza in vari ambiti della ricerca d'arte.
Le code si ricongiungono, l'autore non ha meno dignità del pubblico, l'arte diventa luogo dedicato per lo scontro e la mediazione fra attore e coro tragico. Il punto di equilibrio, in questa triangolazione fra autore, risultato e platea attiva, è mutevole, imprendibile, si sposta di continuo. È per definizione datato, cioè documenta in profondità lo stato delle cose attuali. Si tratta di un genere di arte molto legato alla cultura delle grandi città industriali in Occidente, forti consumatrici d'arte, architettura ed entertainment, e difficilmente fruibile da chi non abbia un background urbano, da chi cioè non sia in grado di fare zapping fra diversi linguaggi visivi e narrativi della contemporaneità. Il discorso autobiografico dovrebbe essere una scienza del particolare, un capitolo del grande romanzo dell'alienazione del singolo. Al contrario si sta progressivamente affermando come un esperanto artistico: perché le global cities influenzano le città minori e le città tutte insieme trascinano le non-città, perché istituzioni ed eventi di stampo globale generano un pubblico d'arte omogeneo in sempre più paesi (pensiamo alla Turchia, alla Cina), perché lo zapping è uno strumento acquisito di conoscenza. Particolare e universale si divertono a scambiarsi i ruoli incessantemente (il che lo spirito moderno non può evitare). Gli esotismi si spengono lontano per rinascere vicino a noi (il che è un bene, mi pare).
Nel lavoro di Marco, stabilite di volta in volta delle griglie di partenza da cui dipendono le condizioni per cui lo scambio sia il meno artificioso possibile, succede – e questo rende thrilling il lavoro di Marco – che non si sa mai come va a finire. Nemmeno Marco, credo, lo sa sempre. In questo vi sono grandi coraggio e ambizione: forte progettualità nel meccanismo, ridotto controllo sul risultato (con conseguente discreto disinteresse per l'esito formale dell'opera). Mi viene in mente, tanto per dare una direzione di lettura, un'etichetta che ha un sapore anni '70: opere/operazioni aperte. Ho letto in giro che questo tipo di arte dicesi relazionale.


La relazione come missione
Per capire meglio Following John vale la pena di dare uno sguardo all'indietro. Nel 1995, con Prendersi carico delle immagini, Marco ha preso una fotografia fuori da ogni schema che lo ritrae nudo, steso in orizzontale a braccia aperte e sostenuto solo dai piedi della sua ragazza sdraiata (pronto a girare come una palla sul muso di una foca o spiccare il volo come Icaro), se l'è caricata in spalla a mo' di zaino, è salito sulla sua moto d'epoca e se n'è andato a zonzo nel cremonese interrogando viandanti e comitive di bambini su che cosa evochi loro questa strana immagine. Poi ha esposto foto, moto e risposte in galleria. La fotografia ha percorso realmente un viaggio, si è caricata di significati come una carta moschicida, non è lì per caso insomma. Ha una sua storia condivisa con il prossimo, per quanto casuale quest'ultimo possa essere (ma un viaggio non è mai casuale, è fatale).

Un lavoro a dir poco spiazzante è nello stesso anno Operazioni necessarie alla circolazione accelerata di ossigeno, quando Marco ha costruito in giro per Milano e provincia dieci set con una casetta per bambini Ikea. Arrivava, allestiva la sua casetta-cuccia-rifugio-palazzo (che in piccolo contiene già tutta la parodia della cultura da centro commerciale) e armeggiava su un bollitore da campeggio invitando i passanti ad unirsi per il tè delle cinque. Era il pretesto per avviare una conversazione sui temi più disparati, dal successo dell'ultimo libro della Tamaro ai tempi che cambiano e non sono più. L'operazione era chiaramente rivolta a quel genere di pubblico che reagisce, che sente, che non è indifferente ed è disposto a farsi coinvolgere in qualcosa di non ordinario. Sembra poco ma chi conosce Milano o i lombardi sa che non è così. Qualche volta il set stentava a decollare, altre volte suscitava reazioni a catena. Una volta è arrivata anche la televisione. In galleria un pannello a mosaico delle foto ha reso testimonianza di questa leggera, consapevole spinta ludico-eversiva, questo togliere il terreno alla gente da sotto i piedi per far riflettere. Su cosa? Su quanto poco basti per sciogliersi e guardare le cose da un punto di vista differente. (Il quanto poco, naturalmente, lo diciamo a posteriori.)

Marco ha continuato su questa strada nel 1996 con Abbracci, uno dei lavori che gli ha dato più visibilità nel circuito artistico, forse per l'ambiguo retrogusto cristiano o forse per quel tanto di istrionismo situazionista che in questo ramo dell'arte non guasta mai. Marco si è fatto ritrarre da una fotografa mentre andava in giro per Milano abbracciando persone consenzienti a restituirgli l'abbraccio. Estranei prima e dopo ma non durante. Per un istante fratelli e compagni. La poesia è non tanto e non solo nella rappresentazione della difficoltà di amare un prossimo qualunque superando la barriera dello schifo epidermico e del rischio sociale (difficoltà anche dell'artista) ma nel fare un'azione priva di scopo, totalmente gratuita. Simbologia enorme + motivazione zero = spiazzamento totale. Come, devo abbracciare un estraneo facendo finta che sia un mio amico? Il gesto dell'abbraccio si carica e si svuota di significati come un'altalena. L'eleganza della performance è nella semplicità radicale del gesto e nella facilità con cui gli abbracci si possono dare a un estraneo o negare a un amico. Il messaggio politico è che non esiste solo la fredda città del sospetto e della cronaca nera ma esiste anche una città calda del desiderio, della fantasia e delle relazioni fra esseri che si trasmettono calore. Scambio a livello corporale oggi come promessa di scambi più spirituali domani. (Marco, perché non fai causa alla nota casa dolciaria per averti rubato il nome con cui ha battezzato quei biscotti così apprezzati dagli italiani?)


Il piacere della relazione
A un certo punto Marco fa un passo avanti e prende come soggetti per le sue operazioni i suoi amici e conoscenti. La relazione non è più casuale, distratta, mentale ma diventa lo specchio di una storia vera. Il meccanismo rimane ma richiede partecipanti già coinvolti a priori, il gioco si fa più profondo. Con Esercizi di cognizione orizzontale, lavoro del 1998-'99, chiede a dieci amici di fare una ‘passeggiata filosofica' in cui affronta un tema prestabilito, al termine della quale artista e amico sono chiamati ad esprimere un esito, una fotografia del concetto emergente e più spigoloso. Per esempio, nel corso della passeggiata con me, dopo una serata trascorsa a una festa di artisti in Piemonte, ci siamo fermati a parlare all'alba nel parcheggio di un centro commerciale ad Alessandria e ci siamo ripresi con l'autoscatto. La frase a cui siamo giunti per negoziazione successiva, che esprime le mie ansie per il futuro e la necessità di stabilire obiettivi di marcia nella vita, è: ‘Guarda che solo i ricchi possono permettersi di non avere ambizioni.' (La domanda da cui eravamo partiti era ‘L'ambizione è una malattia?'.) Dentro ogni immagine c'è la memoria della passeggiata-incontro, dentro ogni frase c'è un frammento eloquente della personalità e del disagio dell'amico mediati dalla saggezza di Marco. L'autore è leggero, non invasivo ma presente e ben determinato nel voler costruire un affresco sentimentale dei suoi amici. Cioè di sé. Più mettersi in gioco di così? Senza nulla togliere al tasso di eticità dei proclami che ne sono risultati, credo che Marco si sia divertito molto a fare queste passeggiate e a costruire una filosofia del senso comune un po' meno comune, indicando agli spettatori con ironia (quell'ironia che non indietreggia di fronte a nulla e che fu, prima di Marco, di Emilio Isgrò e Carmelo Bene) una rudimentale metodologia per accostarsi alla riflessione. Istruzioni per vivere meglio: invitate i vostri amici a fare una passeggiata filosofica. Potrebbe anche piacervi.

Poi arriva il gioco dell'assenza. Con l'operazione Una circostanza (1999) fa confluire il pubblico per alcuni giorni in una stanza d'albergo dove, assente l'artista, si imbatte in scritte enigmatiche e evocative. (C'era già stato un precedente nel 1997-'98 con Ora ma non qui: Marco aveva esposto in diverse gallerie il messaggio che in quel momento qualcuno, in un altro luogo, provava piacere con trecentomila lire dategli dall'artista.) La malinconia della stanza d'albergo disabitata evoca gli ectoplasmi di Tarkovskij in Solaris e lo sconcerto di coloro che invitati al vernissage Le Vide di Yves Klein alla galleria Iris Clert a Parigi nel 1958, non vi trovarono proprio nulla, salvo le pareti bianche, i vetri sulla strada dipinti di blu e il giorno dopo una bella pipì blu a causa di un cocktail sofisticato con blu di metilene. Trasparenze affettive, esserci negandosi, scatole cinesi. È il gioco della traslazione di valore, dove il meccanismo è a nervi scoperti: vai in un luogo extra-galleria quando e perché te le dico io, oppure ti dò i soldi, vai e divertiti).

Ma Marco non è tipo da stare dietro le quinte a lungo e con Following John, come abbiamo visto, ritorna prepotentemente in primo piano.


Conversazione con Marco Vaglieri su Following John

– Tu chiedi a John di come ci si sente ad essere nipote di Hemingway. Il tema ti preoccupa perché sei il nipote di Tino Vaglieri (affermato pittore milanese del dopoguerra, legato alla corrente del Realismo Esistenziale – N.d.A.) o perché hai avuto rapporti non risolti con tuo padre (pittore anch'esso) o il tuo maestro di pittura all'Accademia, o con le generazioni prima di noi?

– Quando ho conosciuto John ero curioso. Non capita spesso di conoscere un Hemingway. Dopo il primo incontro questa curiosità ha lasciato posto al desiderio di conoscerlo come persona. E ho capito che i miti, quelli contemporanei, sono figli di una lettura distorta della realtà, fanno parte di una sovrastruttura umana che comporta un approccio superficiale con le cose e con le persone. Questo non toglie il fatto che John sia comunque il nipote del più famoso scrittore del secolo scorso, che lui, volente o nolente, porti lo stesso nome e che, soprattutto, abbia deciso di fare lo scrittore. Questa cosa mi colpisce. Ci sono diverse interpretazioni rispetto alla questione delle eredità genetiche. Penso soprattutto a Laborit con il suo famoso Elogio della fuga e a Hillman con i suoi studi raccolti nei recenti libri Il codice dell'anima e La forza del carattere. Facciamo qualcosa perché è innato in noi il bisogno di farla o perché abbiamo ereditato questo bisogno? Incarniamo un'essenza o siamo solo il veicolo del nostro patrimonio genetico? Io non mi sono fatto un'idea precisa sulla questione, che per me rimane una delle cose più affascinanti della storia dell'uomo. Anche l'arte vive questa contraddizione. Con l'impressionismo, cioè con la nascita dell'arte moderna, l'arte si è staccata progressivamente da quello che era il suo ambiente naturale e dalle sue prerogative che erano rimaste immutate per secoli. Questo cambiamento è stato forzato soprattutto dall'avvento della tecnologia e dal dispiegarsi di innumerevoli possibilità nell'uso dei supporti tecnici. Le avanguardie hanno visto in questo la possibilità di cambiare radicalmente il modo di pensare l'arte, hanno sempre manifestato il desiderio e l'utopia di tagliare nettamente con il passato, di non riconoscere più padri, storia e tradizioni, in un lucido programma di azzeramento della trasmissibilità della cultura. Tutto è stato frantumato, ridotto in polvere ma, per contro, quello che è andato distrutto non è stato ricostruito. Noi oggi siamo tra queste rovine, altri linguaggi hanno tratto profitto da questo – non l'arte che, ad esempio, come immaginario, è stata soppiantata dal cinema, e che oggi è confinata in un mercato esclusivo di beni di lusso, impantanata in un'estetica presa a prestito dalla moda e dal design, asservita alla logica commerciale dei grandi loghi divenuti veri e propri attori sociali anche nel sistema della produzione artistica. Per quanto riguarda me ti racconto una cosa. Io faccio l'artista perché mio nonno non aveva il frigorifero, così suo figlio Tino era comandato durante l'estate a riporre il burro nel frigorifero di un vicino che faceva il pittore. Mio zio Tino si invaghì a tal punto del profumo dei colori e della trementina che diventò a sua volta pittore, imitato poi da suo fratello minore Manuel, mio padre. Quindi non mi interessa proprio se dipende da rapporti non risolti o da un frigorifero o dalla sensibilità olfattiva di mio zio, ma ora che mio padre e mio zio sono morti io voglio continuare a fare quello che facevano loro: è uno dei motivi per cui faccio l'artista.

– Tu dici sotto sforzo. È lo sforzo richiestoci per rompere il ghiaccio della banalità?

– Mi sembra che oggi lo sforzo maggiore debba essere quello di accettare la nostra banalità. Perché la vita è fatta anche di banalità. La ricerca dell'originalità invece è diventata un'ossessione: ci sforziamo tutti di essere speciali e inseguiamo il sogno della nostra unicità. Mi viene in mente una frase di Ennio Flaiano: “Il cretino oggi si è specializzato”. Tu guarda la televisione che ci propinano oppure la moda, la pubblicità, con tutti i patetici sforzi di caricare le cose, di cercare sempre e comunque l'effettaccio, lo scandalo. Sono le sole trovate per interessare un pubblico stanco. Ma il gioco è sempre al ribasso, non c'è pensiero ma solo business. Il mercato raramente crea pensiero mentre il contrario può avvenire, basterebbe un po' più di coraggio e di dignità. Purtroppo anche l'arte contemporanea ne risente proprio perché è contemporanea a tutto questo. Sono i nostri occhi che devono cambiare, il nostro modo di guardare il mondo. Questo dovrebbe essere il nostro sforzo ed è uno sforzo simile a quello sportivo, che ti costringe sempre a fare i conti con i tuoi limiti e ad accettare anche di arrivare ultimo.

– Senti la differenza fra te europeo e John yankee? Che cosa vi accomuna?

– Certo che la sento. Io sono una cinquecento e lui una Ferrari! Ho una specie di invidia nel modo che hanno gli americani di prendere la vita, che non sembra mai gravato da dubbi e incertezze, ma non posso dire di più perché non sono mai stato in America. Quello che invece mi accomuna a John, oltre a un certo senso dell'umorismo, è che entrambi facciamo qualcosa che ci arriva direttamente dalla storia delle nostre famiglie.

– Come vivi il fatto di fare più fatica di John?
Lo accetto, lui è molto più costante con la bicicletta e quindi è più allenato di me. Lo fa con una serietà e una dedizione che gli invidio. Comunque a pedalare in salita faticano tutti.

– Esiste una fatica della salita e una fatica della comprensione. Il luogo comune vuole che la seconda sia ben più ostica e dura da sopportare…

La comprensione parte da se stessi ed è la fatica più immane, è una cosa alla quale non ci si può sottrarre, pena fare una vita che non è la nostra.

– Come ti poni rispetto agli altri artisti cosiddetti ‘relazionali'? Ci sono solo delle affinità di genere oppure si può parlare di una corrente artistica e di un manifesto comune?

– Il mio lavoro è figlio della stima e dell'interesse che ho provato per certi artisti, anche coetanei. Questo discorso riguarda sia l'estero che l'Italia, dove ci sono ricerche molto interessanti. Con alcuni artisti ho sicuramente delle affinità. Credo però che l'urgenza classificatoria non sia lo strumento più efficace per osservare la contemporaneità. Rischia infatti di diventare un esercizio fine a se stesso, una sorta di salvagente a cui ci aggrappiamo nel tentativo estremo di recuperare un'identità, di legarci a un gruppo e riconoscerci in esso. Così continuiamo a parlare di categorie e ci sforziamo di trovare il nostro posto sopra o a fianco di una qualsivoglia consorteria. Nel frattempo ci sentiamo sempre più soli perché in realtà questi gruppi non esistono. Mi spiego meglio. Non riesco a vedere artisti che si muovano con l'intento di elaborare un pensiero che possa dar vita a dei movimenti ben definiti: questa è una nostalgia per un passato che non torna, oppure il gioco a tavolino di qualche critico in vena di scherzi. Piuttosto mi sembra che gli artisti lavorino in solitudine arrivando, in alcuni casi, a creare dei lavori che hanno sì delle analogie ma che rimangono volutamente episodi isolati. Oggi gli artisti sono più inclini a condividere una condizione piuttosto che un pensiero. Mi domando allora se l'urgenza di trovare realmente delle comunanze non sia solo un passatempo. Che sia proprio la tendenza ossessiva a storicizzare e a collocare l'arte nel solo ambito storico l'impaccio che ci impedisce di mettere in comune le nostre storie? Un'ultima considerazione: parlare di relazione non significa nulla. È come parlare di una giornata che può essere bella o brutta, lunga o breve, noiosa o eccitante. Se si intende la relazione come unica giustificazione del proprio lavoro, si commette un errore di superficialità. Basta guardare l'uso che i media hanno iniziato, non da molto, a fare delle migliori idee nate in campo artistico, soprattutto in quello definito ‘relazionale'. La televisione propone programmi che hanno una costruzione e dei meccanismi molto simili ad alcune operazioni artistiche decisamente interessanti. La televisione se ne è impossessata e li ha impoveriti, ne propone la parte più piatta perché gli intenti, ovviamente, sono diversi. Tocca agli artisti, ancora una volta, cambiare strada.

– Fatto 100 il video, quanto è finzione e quanto è realtà?

– Bisogna fare pace con la rappresentazione. La rappresentazione è stata lo spauracchio delle avanguardie che le avevano dichiarato guerra. Per me è uno strumento come gli altri. Molti dei miei lavori hanno una fruizione doppia. Alcune persone li vivono in diretta accogliendo le mie proposte e costruendoli assieme a me, vivono la parte più immediata di queste operazioni che è qualcosa che si vive e basta e rimane irriproducibile. Altri sono spettatori di questi processi e li fruiscono guardando le tracce che questi lavori lasciano. I primi sono persone alle quali propongo di mettersi in gioco con me, gente che io contatto o che mi incontra casualmente mentre dò vita a una delle mie operazioni, gli altri fanno parte del pubblico dell'arte e vedono i miei lavori nelle gallerie o nelle mostre a cui partecipo. Le tracce che lasciano queste esperienze sono di natura diversa (video, foto, libri, disegni, oggetti) e ci devono essere per documentare una storia, queste tracce rientrano tutte nel campo della rappresentazione. Ma un nocciolo duro di immediatezza nei miei lavori è sempre presente. Li penso in modo che quello che alla fine si vede mantenga questa caratteristica. John non sapeva bene cosa avremmo fatto. Si era solo reso disponibile a fare una chiaccherata in bicicletta alla presenza della videocamera. Il dialogo quindi è assolutamente reale, in presa diretta. Poi si è trattato di scegliere fra oltre tre ore di girato. Quindi, nel caso di Following John, fatto 100 il video, direi 50 e 50.

– Che cosa vuol dire per te dialogare mentre ci si sposta nello spazio. Vuol dire forse che non si può arrivare mai a un punto fermo e tutto è controvertibile? Oppure che c'è un tempo per andare e uno per tornare?

– Parlare mentre si cammina è la cosa più bella che ci sia. Il mondo ci nutre di immagini e di argomenti e noi lo ricambiamo accarezzandolo coi nostri piedi. Lo spazio che attraversiamo ci dà la sensazione continua di rinnovamento, non ci fa mai sentire costretti, soli con le nostre parole. Cosa c'è di meglio che condividere queste sensazioni?

– Che reazioni ha avuto il video sul pubblico? Cosa ti hanno detto, che cosa ha colpito di più?

– Le più diverse, come sempre. Mi colpisce il fatto che la lettura dei miei lavori sia sempre così eterogenea. Per me le reazioni del pubblico sono fonte di ispirazione e motivo di profondo interesse. Rispetto a Following John certi si sono indispettiti pensando che io volessi celebrare un personaggio solo per il nome che porta, altri hanno detto che io avevo usato John, alcuni invece si sono commossi soprattutto per la parte finale del video, quella in cui compaiono le scritte. Voglio comunque ricordare che dopo aver girato il video John ha scritto un racconto ispirato a quella esperienza, intitolato Glen. Questo racconto sarà pubblicato nella prossima primavera. Sono molto contento perché è un racconto bellissimo e poi perché mi piace molto il fatto che uno scritto nasca da un girato e non il contrario, come di solito accade.

– C'è un messaggio ecologico nella bicicletta, o filosofico… Pare che sia molto di moda la bici come strumento per rallentare la corsa, per fare downshifting come dicono gli americani, rispetto alle locomotive, ai bolidi e agli aerei del Novecento?

– Le mode che riguardano la gestione della nostra esistenza rimangono delle mode. Se queste formule funzionassero le cose sarebbe già cambiate. Non si può più rallentare il mondo a meno di cambiare radicalmente il sistema del libero mercato e lo stile di vita maniacale che esso propone, non vedo segnali in questa direzione, anzi. Così, immersi in questa centrifuga che chiamiamo civiltà occidentale, ogni tanto ci illudiamo che di colpo qualcosa ci cambi la vita, purtroppo il mondo è pieno di ciarlatani, affaristi in cerca di ingenui. Ci sarà sempre qualcuno che è disposto a pagare per abbracciare un albero o bere acqua piovana, non perché ne senta il bisogno ma perché lo fa sentire alla moda. La bicicletta è un mezzo di trasporto individuale che in Italia ha una storia molto radicata. Andare in bici per me è molto simile a camminare, solo che si fa più strada.

– Dì qualcosa ai lettori di Don Juan senza che te l'abbia chiesto io.

– Intanto, se sono arrivati fin qui, li ringrazio, come ringrazio te e i redattori di Don Juan che mi hanno ospitato. Poi mi piacerebbe che facessero un ultimo sforzo e che leggessero queste parole di Nietzsche e le intendessero come un caro saluto: “Voglio imparare sempre più a vedere il necessario nelle cose come quel che vi è di più bello in esse: così sarò uno di quelli che rendono belle le cose. Amor fati: sia questo d'ora innanzi il mio amore… quando che sia, voglio soltanto essere, d'ora in poi, uno che dice sì… (La Gaia Scienza)”


Eugenio Alberti Schatz




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