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Nessun uomo sia isola: sia arcipelago! Qui trovate veri link verso mondi che partecipano dello spirito di Ladomir. Potrebbe essere che dicano piω loro, su questo spirito, delle parti descrittive tradizionali di questo sito. Correte il rischio.

[18/4/2008]

# 23_Giuseppe Cordini


PILLOLE DI GHISA
Otto racconti


Alessandro Manzoni


È maledettamente vero che quando ti serve un vigile non lo trovi mai. Questo pensava l'Amedeo Galetti mentre ansimando rincorreva, infagottato nel cappottone nero, l'Alessandro Manzoni. Era una vecchia storia fra i due: Alessandro Manzoni era un borseggiatore, tossicodipendente e maldestro, che per andare sul sicuro operava sempre sull'autobus cinquantaquattro. Ormai lo conoscevano tutti gli autisti dell'ATM e non solo loro, ma il Manzoni riusciva sempre a cavarsela. Quella sera il Galetti (su soffiata di un tassista) aveva sorpreso il lestofante mente si sbarazzava della ‘quaglia' gettandola in un cestino dei rifiuti.

– Adesso basta, – scattò il vigile Galetti, mentre il Manzoni a sua volta scattava nella fuga.
Il cappotto e la pesante radiotrasmittente lo zavorravano non poco e buona parte del fiato del vigile urbano se ne stava andando nel chiedere ausilio alla centrale operativa. Percorsero così, col fiato che si condensava nell'aria gelida, via Mazzini, piazza Missori, via Amedei e i vicoli che portavano alla via Torino. Non ce la faceva più il Galetti, quando finalmente venne raggiunto dall'auto di servizio, la Duomo uno. Saltò a bordo dimenticandosi il casco che ruzzolò lungo il cordolo del marciapiede (non sarà mai più ritrovato) e indicò all'autista la direzione da prendere, là dove ancora si vedeva scappare il Manzoni fra due ali di passanti indifferenti. Il Vigile autista Canonica entrò subito nel ruolo dell'inseguitore e sistematosi con un colpetto il parrucchino che aveva una fastidiosa tendenza a disporsi sulle ventitrè, diede un deciso colpo di acceleratore fino a far imballare il motore della Giulia.

– La marcia Canonica, la marcia cazzo, – sbottò agitato il Galetti, mentre il Manzoni, ormai a un centinaio di metri, cogliendo l'occasione della fermata del diciannove vi era salito con decisione.
– E adesso? – ebbe il coraggio di chiedere l'autista.
– E adesso lo andiamo a prendere, possibilmente prima che arrivi al capolinea.
Ora, c'è da osservare che in quanto a guida veloce il buon Canonica non era un fenomeno, così, nonostante il lampeggiante e la sirena in azione si fermava ad ogni passaggio pedonale e osservava puntigliosamente le indicazioni del semaforo.
– Dobbiamo dare il buon esempio, – diceva l'ottimo cristiano.

Intanto il tram si era infilato in via Orefici e il zoppicante inseguimento ebbe termine in via Broletto, quando con manovra da telefilm l'autopattuglia si pose davanti al tram, bloccandolo. Il Galetti salì per primo sulla vettura intimando al manovratore di richiudere le porte e attendere. Passò in rivista i passeggeri almeno un paio di volte ma niente, il Manzoni non c'era. Volatilizzato. Poi, improvviso un dubbio tremendo…

– Ma che ci fa in via Broletto il diciannove?
– Questo è il trentatrè, – rispose un coro di divertiti passeggeri.
Avevano inseguito il tram sbagliato. Evidentemente, mentre l'auto dei vigili dava il buon esempio in via Torino, il trentatrè si era accodato al diciannove facendo sorgere l'imbarazzante equivoco. Il Vigile autista Canonica quella sera se le sentì cantare, e il nostro Galetti, per farsi sbollire la rabbia e concludere dignitosamente la traballante storia, non ebbe alternativa che passare la notte a Baggio, sotto la casa del Manzoni, fino a che non lo vide rientrare ciondolante verso le cinque del mattino. Anche il Manzoni se le sentì cantare. Il giorno dopo, al pomeriggio, entrambi erano ai rispettivi posti di lavoro, il Galetti con gli occhi pesti per la nottataccia, il Manzoni Alessandro sulla cinquantaquattro, con una denuncia in più. Niente di grave in fondo.


Cassandra

Attilio Chiodini quella sera rischiò di perdere un'amicizia. Il servizio serale in Centrale radio-operativa se ne stava filando via liscio e lui si godeva il quarto d'ora di cambio sul portone del Comando di piazza Beccaria. Il solito andirivieni di gente che entrava speranzosa nell'Ufficio Sputi e insulti, quello che restituisce i veicoli rimossi (piuttosto che il furto, speriamo che ce l'abbiano i vigili, la macchina, pensava il popolo in entrata) e gente che ne usciva un po' meno serena, con in mano le istruzioni per il ritiro del mezzo e più leggera di qualche banconota.

L'Attilio ormai non ci faceva più caso, sono ben altre le disgrazie – pensava, – lui ne aveva viste tante…. Assorto nei propri pensieri di aspirante saggio, quasi non si accorse che una coppia di vigili motociclisti stava per riprendere servizio, così la moto di Renato Segù, compagno di corso e uno degli ultimi milanesi, si fermò a pochi centimetri dal piede sinistro del nostro.
– Tirati via di lì, – ringhiò il Segù, che non mandava mai a dire – sei sempre in mezzo alle balle.
La risposta del Chiodini venne fulminea e geniale insieme, sapendo che la sua fama di portasfiga, vera o fasulla che fosse, gli assicurava una sorta di esoterico potere.
– Sta attento tu, piuttosto, che sta cominciando a piovere… – buttò là l'Attilio.
In effetti il solito temporale di fine estate si stava annunciando con le prime calde gocce. Comunque era ormai ora di risalire in sala radio.

Attilio Chiodini riprese rinfrancato dalla pausa e seduto alla consolle continuò nel suo lavoro. Va detto che a quei tempi, primi anni '80, i vigili milanesi gestivano ancora il coordinamento delle ambulanze, quello che ora è passato al 118 e le richieste di intervento giungevano, oltre che dai cittadini, dal 113, dai Carabinieri, dai Vigili del Fuoco e dal coordinamento delle pattuglie della polizia municipale, che stava nello stesso salone.
– Manda un'ambulanza in Santa Margherita, uno dei nostri motociclisti è scivolato sul pavé.

La richiesta venne evasa immediatamente ed un pensiero attraversò per un attimo la mente del Chiodini (possibile che…) subito distratto dallo squillo della linea diretta col 113. Dopo un paio d'ore l'ultimo cambio, e di nuovo sul portone, stavolta a salutare i colleghi del turno di notte che iniziavano il servizio. Pochi minuti dopo rientrò un'autopattuglia, a bordo solo l'autista e sui sedili posteriori ben visibili un giaccone di pelle e tutta la bardatura di cuoio bianco che i vigili motociclisti si portavano addosso. L'uniforme del collega infortunato, senz'altro.
– Sei tu il Chiodini? – domanda retorica del collega autista che lo conosceva benissimo.
– Cosa c'è? – un attimo di preoccupazione nella voce dell'Attilio.
– C'è che quando ti prende il Segù, è meglio se non ti fai trovare perché… – e qui il vigile si dilungò in una minuziosa descrizione della manipolazione sado-anatomo-traumatica che il Renato Segù, dal suo lettino di ospedale, gli stava anticipando e promettendo.
Era forse questo il motivo per cui il collega Colombo da qualche tempo lo chiamava Cassandra? – si chiese l'Attilio Chiodini.


Decubito prono

Sono passate le ventitre di quel quattordici d'agosto e l'alfa esegue la manovra di avvicinamento al Comando della Zona Vittoria senza neppure il bisogno di toccare il volante, strada dopo strada, incrocio dopo incrocio. A mezzanotte si smonta e non bisogna farsi cogliere impreparati. È allora che in via Marco Bruto l'autopattuglia dei vigili viene superata da una opel che procede contromano a velocità eccessiva, anzi di più. Ma come, non è successo niente tutta la sera, cosa insolita per l'estate milanese, e adesso che stiamo per andarcene a casa questo qui ti supera zigzagando contromano come un ubriaco? Non c'è bisogno di parlare, c'è solo da andare a prenderlo e il capopattuglia De Pieri aziona la levetta del lampeggiante. No, il lampeggiante non va: sarà il solito fusibile. Aziona la levetta della sirena e anche qui silenzio. Maledette baracche!

Intanto l'autista si mette all'inseguimento della opel che sta imboccando la Cardinal Mezzofanti, sempre in velocità e contromano.
– E no, questa è una via dove si stanno collaudando i primi semafori per ciechi, e non vorrei che questi disgraziati mi mettano sotto qualcuno – De Pieri si agita. – Allora come li fermiamo, gli tiro?
–Sparargli no, – gli risponde il collega – però un colpo in aria…
Ecco fatto, De Pieri ha già la Beretta in mano e mette il colpo in canna. Un colpo solo, bene in verticale e la opel, come d'incanto, svolta a destra e si ferma nell'area del distributore di benzina. (Solo più tardi il conducente spiegherà che si è fermato scambiando il colpo d'arma da fuoco per l'esplosione del pneumatico.)
Quando un'azione di polizia inizia con le armi in mano, continua con le precauzioni di rito e gli occupanti dell'auto vengono fatti scendere con quattro urla che fanno accendere le luci nei palazzi di fianco alla strada.
– Tutti a terra, svelti, e giù distesi – il tono è professionale, intimidatorio e non lascia spazio alle discussioni.

Intanto i milanesi costretti a casa in quella torrida sera d'estate scendono in pantaloncini corti e zoccoli e si dispongono in riga, ordinatamente e in silenzio, lungo il muro che delimita il marciapiede opposto, lo spettacolo è gratis. Arriva anche il vigile fuori servizio Zonca Aristide, con tanto di consorte che, parcheggiata la cinquecento poco distante, si avvicina furibondo.
– Disgraziati, a momenti mi mandano fuori strada questi qui, mi hanno costretto a una manovra che solo per un miracolo non mi sono ribaltato! – Così dicendo, prima che qualcuno possa dire beh, leva le scarpe ai quattro stesi pancia a terra e gliele getta in mezzo alla strada: – Così non scappano, – è la spiegazione dell'anziano ghisa, presto richiamato dalla moglie: – Andemm Aristide, che me trèmen i genoecch.

Il resto della storia è banale: una banda di succhiabenzina che ai vapori di carburante inalati rubando nei serbatoi delle auto ha mischiato i vapori di qualche litro di lambrusco. Risultato, guida pericolosa e un'appropriata serie di contravvenzioni. Il mattino dopo De Pieri è nell'ufficio del Capo Drappello Ciusani, a rapporto.
– Cos'è che hai scritto qui… “faceva assumere loro la posizione di decu… bito pr… ono?”
– Sì capo, decubito prono, per cautelarmi li ho fatti stendere a terra faccia in giù.
– Ah ecco, decubito prono, – riflette pensoso il superiore. – Ascolta, – continua deciso restituendo la relazione al De Pieri, – la prossima volta mettili contro il muro come fanno tutti gli altri, suona meglio.


Galletti amburghesi

Un radioso mattino di primavera, una rarità, a Milano. Tutto il centro città tirato a lustro per la visita ufficiale del Presidente della Repubblica e una lucidata supplementare ai bottoni dell'uniforme per l'Amedeo Galetti, agente motociclista del servizio scorte della polizia municipale.

Sempre in ordine il Galetti, ci teneva, figuriamoci per questo evento: buffetteria candida e moto in perfetto ordine. Ancora due ore di attesa per l'arrivo all'aeroporto e una concessione alla richiesta del collega Lello Gaviraghi di una sosta in banca per un veloce pagamento e per un'ultima prudente occhiata al percorso da farsi col Presidente. Mentre il Gaviraghi entrava in banca per la sua incombenza, il Galetti attendeva accanto alle moto guardandosi intorno, un orecchio alla radio. Erano gli anni bui del terrorismo e tutto il sistema di protezione era allertato. Anche il vigile viabilista all'incrocio poco lontano appariva più attento del solito. Il nostro stava giusto scambiando un commento con un giovane agente della Polizia di Stato quando la sua attenzione venne richiamata dai trilli di fischietto del vigile che, all'incrocio, tentava inutilmente di fermare un maggiolino volksvagen infilatosi nella corsia in una parte della carreggiata dove il transito era stato vietato per ragioni di sicurezza. Un cenno al collega e il maggiolino venne preso in carico dal Galetti che brandì con decisione la paletta, sventolandola davanti al veicolo. Il quale, nonostante le chiare intimazioni all'alt, proseguiva la sua corsa, seppure a velocità ridotta.

Fu allora che il nostro agente ebbe modo di scorgere l'inquietante volto del conducente, terribile a vedersi tanto da sembrare una maschera di gomma sopra un corpo enorme. Superato lo sbigottimento, Galetti si mise a correre di fianco alla macchina e, vista l'inutilità di tutti i tentativi di fermare in altro modo la macchina e confortato dall'agente della Polstato che stava anch'esso intervenendo, estrasse la pistola e appoggiandola quasi al pneumatico anteriore fece fuoco. Niente, non succedeva niente. La gomma, o meglio le gomme, visto che nel frattempo anche la ruota posteriore sottoposta allo stesso trattamento non faceva una piega. Stessa reazione per le ruote di destra oggetto dei colpi del collega poliziotto, mentre il conducente con gli occhi fissi davanti a se continuava imperterrito, fino a che non tamponò l'auto che lo precedeva. Dopo un ulteriore incidente provocato dalla guida pazzesca dell'autista della volkswagen, il Galetti, allora più agile di oggi, salì sulla pedana dell'auto e si tuffò letteralmente all'interno del veicolo, sgomitando il conducente e riuscendo a togliere le chiavi dal cruscotto. Dopo qualche metro, finalmente l'auto si fermò.

Ed ecco che arrivò la cavalleria. Sembrava la fine del mondo: auto in sirena, poliziotti, Carabinieri, finanzieri armi in pugno che accorrevano. Sulla verticale un elicottero con i tiratori scelti pronti a sparare, il disgraziato estratto a fatica dalla sua scatoletta metallica e imbragato con due paia di manette – per le dimensioni, un solo paio non bastava – sottoposto ad una perquisizione che pareva una radiografia tanto era intima. Infine, dopo quattro telefonate l'illuminante verità: non di un terrorista si trattava, bensì di un paziente allontanatosi dal vicino Policlinico, reparto Guardia Seconda, pronto intervento psichiatrico, che ebbe finalmente modo di dire la sua. Intanto lui era un Angelo. E poi bisogna sapere che tutte le primavere i diavoli, abilmente travestiti da sbirri, tentano di prenderlo e succhiargli la bile, così da ucciderlo. Lui poteva solo tentare di fuggire no?

Tutto si svolse alla velocità della luce e così come erano arrivati, con stridore di gomme, motori imballati e il vento fortissimo causato dalle pale dell'elicottero che riprendeva quota, scaricato il personaggio dalla Volante della Polizia e recuperate le manette, tutti scomparirono nel nulla lasciando il Galetti con l'incomodo. Non disponendo di due paia di manette, il Galetti ne appose una al polso destro dell'uomo e l'altra al telaio della Guzzi 1000 Idroconvert che pesava circa 350 chili. In tutto non erano passati non più di dieci minuti da quando il Gaviraghi era entrato in banca, tanto che lo stesso arrivando in quel momento interrogò il collega sul perché di tutto quel casino. Si aggiunse un alto ufficiale del Corpo che, considerando che non vi era stato alcun attentato al Presidente, sollecitò il Galetti a togliere di mezzo tutto, compresa l'auto che, sorpresa, ospitava, insieme a diversi avanzi di cibo, una coppia di galletti amburghesi in avanzato stato di decomposizione.

Anche l'auto aveva ormai deciso che le gomme si potevano finalmente afflosciare, quel tanto per complicare e rovinare definitivamente la giornata all'Amedeo Galetti, che non lo vide neanche passare, il suo Presidente.


Gullit

Ancora un paio d'ore e avrebbe completato il turno di servizio. Amedeo Galetti stava davanti al suo pc del centro elaborazione dati al secondo piano di Palazzo Beccaria, sede del Comando Polizia Municipale di Milano, quando la porta si aprì e si affacciò il Chiodini.
– Cosa c'è di bello? – esordì il Galetti, smettendo per un attimo di battere sui tasti.
– Devo fare un intervento veloce e i miei uomini sono tutti fuori, – buttò là il Chiodini – non mi daresti una mano? È una cosetta che si risolve in un paio d'ore al massimo: per cena sei a casa.
– Un'altra rogna? – ribattè il Galetti, che il Chiodini lo conosceva da più di vent'anni.
– Ma figurati: dobbiamo allontanare da un centro di accoglienza un ospite che non segue le regole. Gli mettiamo in mano la determina dirigenziale di allontanamento e gli lasciamo solo il tempo di fare le valige. Ti chiedo di venire giusto per rispettare lo standard di sicurezza. C'è anche il Giorgio.
Il Galetti, sebbene poco convinto, sollevò la cornetta e chiamò la moglie, da anni rassegnata a mettere in caldo la cena.

Il centro di prima accoglienza per stranieri di via Novara era uno degli esperimenti tentati dal Comune per rispondere alle prime necessità abitative degli immigrati. Uno degli ultimi rimasti in piedi dopo che gli altri si erano degradati, nelle strutture e nella qualità degli ospiti: allontanati i ‘regolari', vi si erano insediati con la forza e la prevaricazione i peggiori elementi della mala extracomunitaria, così da renderne inevitabile lo smantellamento. Quello di via Novara era l'ultimo tentativo, reggeva perché affidato a una cooperativa seria con alle spalle l'associazionismo cattolico. Ma anche perché il patto di ospitalità prevedeva il rispetto delle regole e la rotazione dopo sei mesi. Chi non ci stava veniva buttato fuori. Solo così il centro poteva garantire una sponda a chi chiedeva una mano per sopravvivere nei primi tempi, in attesa di una nuova sistemazione. Più o meno è quello che i tre si raccontavano quando il responsabile del Centro li accolse accompagnandoli al container dove si trovava la persona da allontanare. Dopo aver chiesto educatamente permesso il Galetti, da sempre a suo agio nel ruolo dell'uomo d'azione, si presentò all'unico occupante la baracca, un giovane in mutande e canottiera, i capelli ordinati in treccioline afro e per nulla preoccupato della visita.

Dopo aver adempiuto alle formalità di presentazione e aver letto l'ordinanza di allontanamento, un poco seccato dall'evidente menefreghismo del giovane, che continuava a starsene pigramente stravaccato sul letto, il Galetti sbottò:
– E si alzi quando parla con un ufficiale della polizia municipale.
Il giovane di colore si alzò, e i tre ebbero solo allora l'esatta cognizione delle dimensioni esagerate della persona con cui avevano a che fare: una specie di Gullit, il calciatore, ma molto, molto più imponente. (Una delle nostre agenti avrebbe certamente aggiunto “e bellissimo” ma donne al momento non ce n'erano.)

– Guardi che se non esce da solo, la facciamo uscir noi, – fece il Galetti con un tono che non lasciava spazio alla trattativa, spiazzando il Chiodini che si preparava in cuor suo alla solita, sfibrante attività di mediazione.
– Io di qui non me ne vado, – fu la laconica riposta dello sfrattato.
Il Chiodini, che in quella faccenda aveva la responsabilità del Capo, stoppò il Giorgio, che già in pressione stava assumendo la posizione ‘ad ariete', e per evitare di coinvolgere gli altri ospiti, richiese un'altra autopattuglia.
La gente dice che quando hai bisogno dei vigili non ci sono mai. È una regola che vale per tutti, anche per i vigili, e infatti la centrale radio mandò di rinforzo un'autoradio dei Carabinieri.

Il Brigadiere intervenuto si presentava più come un impiegatino dell'anagrafe, esile esile e con tanto di occhialini d'ordinanza, che non come vigoroso uomo d'arme, ma i tempi evidentemente cambiano per tutti, anche per i Carabinieri. Ascoltato il breve racconto dell'accaduto e capito cosa c'era da fare, elargì ai tre vigili un cenno di comprensione o forse di compassione, ed entrò nel container mormorando:
– Ora vi faccio vedere come si fa.
– Si alzi in piedi quando parla con un sottufficiale dell'Arma, – fece il nuovo arrivato, ancora più perentorio, se possibile, del Galetti.
Stessa scena di sorpresa per le dimensioni inusitate del soggetto resistente e immediata necessità di un consulto con gli altri operatori di polizia.
– Siamo in cinque, lo prendiamo e lo portiamo fuori senza fargli del male e, se possibile, senza farne a noi stessi, – furono le sagge parole del Brigadiere. Questa era la strategia, ora si trattava di definire la tattica: – D'accordo, chi lo prende per primo?

Il solito Galetti era già entrato insieme al Giorgio, famoso per le mani che viaggiavano ad una velocità indipendente dal cervello e per questo ogni tanto il Chiodini, il suo capo, diventava matto per toglierlo dai guai quando qualcuno sembrava non apprezzare la sua esuberanza. Il resto si può immaginare: cinque sbirri, nel frattempo infatti si era aggiunto anche l'altro carabiniere, che tentano di afferrare, trattenere, spingere, sollevare e abbassare (la testa del Gullit, troppo alto per le porticine interne) a più riprese e scambiandosi i ruoli di spinta e di traino, a fronte di un energumeno che non ha alcuna intenzione di uscire dalla sua baracca. È da immaginare anche un grappolo di affannati personaggi che tutti insieme, con la stessa foga di un tappo di spumante, si trovano sparati all'esterno del container dopo un salto (per qualcuno un volo) di almeno un metro.

Altro cinema per ammanettarlo (ormai la resistenza è più che conclamata) e il Giorgio che commentava:
– Ostia, questo qui c'ha gli alluci che sembrano due prosciutti.
Improvvisamente i cinque si accorsero del silenzio e ancora oggi raccontano di un poco di sgomento che li prese quando si videro circondati da una quarantina di persone, tutte dello stesso inquietante colore nero. Erano i volti severi e preoccupati degli altri ospiti attratti dall'insolito parapiglia, ma ai nostri apparvero come volti forieri di sventura. Fortunatamente si sbagliavano.

Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale l'arresto è facoltativo, soprattutto se le lesioni riportate dal p.u. sono poco più che contusioni, così il Chiodini, una volta portato il Gullit (è più facile ricordarlo così che non con il suo vero nome) in piazza Beccaria negli uffici della sezione, tentò di persuadere il sunnominato a recedere dalle sue intenzioni di tornare al centro di accoglienza, dove i fatti sarebbero stati letti come insipienza della volontà della Pubblica Amministrazione. Un segnale che chiunque avrebbe potuto fare il bello e cattivo tempo. Ma l'individuo era recalcitrante e arrestarlo per una banalità del genere sembrava al Chiodini fuori misura.

– Sentiamo il Magistrato, – suggerì il Galetti, che ancora vantava considerazione per la Magistratura in genere. Così si sentì il Sostituto Procuratore di turno. Convenendo con il Chiodini sulla necessità di esperire ogni tentativo per evitare l'arresto del tipo, la dottoressa Calabrese non si capacitava del rifiuto del personaggio a venire a più miti consigli.
– Dottoressa, perchè non fa un tentativo lei? Guardi, la vengo a prendere io e le offro anche un gelato, perderà pochissimo tempo… – osò Chiodini.
– Questa l'ho già sentita, – bofonchiò il Galetti mentre telefonava a casa per avvertire che la cena ormai poteva passare nel congelatore.
La dottoressa Calabrese era piuttosto agitata, non tanto per il compito che aveva accettato, quanto perché in ansia per le sorti della partita Italia-Germania, ferma al primo tempo. Dopo venti minuti di mediazione, dalla sala agenti la donna mandò un urlo:
– Arrestatelo!
Le formalità di un arresto non sono come i telefilm americani ci mostrano: sono di una complicazione esagerata e soprattutto richiedono un sacco di tempo. Arrivò così il mattino dopo, quando con gli occhi pesti i vigili accompagnarono in tribunale l'arrestato, in ciabatte, per la convalida.

Bene, finì come si poteva prevedere. Arresto convalidato e remissione in libertà. Grazie a qualche dio africano Gullit si convinse infine che non era aria e non rientrò nel centro. E fu proprio fuori dall'aula che il Galetti incontrò una magistrata che conosceva da tempo, geneticamente sessantottina, che tradendo un attimo di pregiudizio nei confronti della polizia in generale abbozzò:
– Galetti, non l'avrà mica picchiato?
– Scusi dottoressa, – replicò il Galetti, – Ma l'ha visto bene?
Il magistrato si allontanò sorridendo.


Il gobbetto

Caldo, molto caldo in quel pomeriggio del 14 agosto a Milano, piazza Cinque Giornate. Tutti i negozi chiusi, anche la gelateria. L'unico punto d'ombra è l'ingresso dei magazzini Coin. Da lì si può agevolmente tenere d'occhio tutta la piazza. Generazioni di vigili ne hanno fatto l'osservatorio principale. Poi il movimento del piano terra del negozio, dove le ragazze del reparto profumeria, nei momenti di attesa della cliente ogni tanto ti sorridono. O è un'idea… chissà. E poi non è forse vero che più d'un collega si è sistemato con le commesse del Coin? Si vede che funziona.

Questi sono i pensieri che impegnano le rilassate cellule cerebrali dell'Attilio Chiodini, ghisa in Milano, quando un anziano signore, dopo aver osservato per qualche minuto il tutore della legge e trovatolo evidentemente troppo tranquillo, gli si avvicina.
– Scusi capo, volevo chiederci una cosa, – ora il vecchietto è proprio sotto il naso dell'Attilio, – Ma per quei motorini lì che ti spaccano le orecchie, quei maleducati lì, non si può fare niente?
Attilio Chiodini lo guarda, per un attimo ancora lo guarda come se si trovasse davanti a una bottiglia del latte vuota. Le stesse valutazioni di inutilità. Ma il dovere chiama quindi, un bel respiro e via con la tiritera dell'assenza della targa (siamo negli anni '70) dei giovani che sono tutti uguali ma qualcuno più tamarro degli altri, sino ad arrivare alla conclusione del discorso con una previsione dettata dalla esperienza. – Tanto, prima o poi si inchiodano da sol… – non fa in tempo a terminare la frase che giustappunto un ragazzo col ciclomotore, smarmittando in segno di sfida all'indirizzo del vigile, esercizio di prassi per la benedetta gioventù, va a sbattere contro un taxi che sta attraversando la piazza nel senso.

Un volo di qualche metro e il centauro rotola a pochi passi dal vigile e dal suo interlocutore. Quest'ultimo ha un repentino cambio di colore del viso e veloce la mano gli corre ad assicurarsi la presa degli attributi nel più antico gesto scaramantico. Arretra il vecchietto, e con un deciso dietro-front si allontana mormorando qualcosa che assomiglia a una smozzicata imprecazione, frammista a un tono di quasi ammirazione. L'Attilio Chiodini compie allora gli atti che la sua professione richiede: scambio delle generalità, arrivo dell'ambulanza, niente di grave per fortuna, e così via. Un incidente come tanti, se non fosse per quel fatto, quella previsione incautamente buttata lì e poi avveratasi. Sicuramente una coincidenza, succede.

A fine turno ecco l'Amedeo Galetti che passa a rilevarlo. È l'ora di rientrare verso il Comando di Zona. Come tacergli lo strano episodio? E Chiodini racconta. Com'è prevedibile il Galetti, naturale inclinazione alla drammaturgia, senza aspettare la fine del racconto già ipotizza scenari raccapriccianti, con l'impiego in modalità imprenditoriale dei superpoteri jellatori che il Chiodini, è quasi certo, si ritrova
– Certo bisognerebbe fare un test di controllo, – continua il Galetti – per certificare definitivamente le tue capacità extrasensoriali. Per esempio, se tu riuscissi a far andare sotto una macchina il gobbetto lì, – azzarda indicando un tale che, curvo sulla sua deformità incede guardingo e sospettoso (i gobbi, dicono gli esperti, sono sospettosi) lungo il marciapiede di corso XXII marzo.

Il Chiodini, che sta al gioco del collega, lo lascia dire, tanto… con l'attenzione che il personaggio mette nei suoi gesti, difficilmente potrà incorrere in incidenti di sorta. In effetti, quando all'incrocio con la via Sciesa si appresta ad attraversare sul passaggio pedonale, il gobbino lo fa con la massima prudenza: visto che due auto si apprestano a svoltare in via Sciesa, lascia passare la prima auto e si fa notare dal conducente della seconda. Ed è solo quando questi dà segno di aver capito le sue intenzioni che il nostro attraversa deciso. Non si era accorto, però, che la seconda auto era malauguratamente al traino della prima. L'investimento è inevitabile. Quando il predestinato rotola sul cofano dell'auto imprecando a chiara voce, un'esclamazione del Galetti celebra il fattaccio:
– Grandioso!

Quel giorno nacque una leggenda.


L'animalista

L'esempio del formicaio è azzeccato. L'incrocio di via Mazzini con le vie Cappellari, Giardino e Falcone per tutto il giorno, ma specialmente al mattino, brulica di persone indaffarate che vanno e vengono. Sui tram, giù dai tram, dentro e fuori dai bar, giusto il tempo per ingollare un caffè e via. Insomma, un gran daffare per tutti. E tutti che vanno veloci, gli occhi bassi. Ma una giovane signora chissà, forse cercando uno sprazzo di cielo azzurro e cullandosi in questa illusione, alza gli occhi al cielo ed ecco che lo vede: al primo piano, sul cornicione della casa d'angolo Cappellari-Mazzini, sta passeggiando un giovane micio. La giovane signora sa quello che deve fare: salvare immediatamente il gatto.

Ed ecco che all'angolo con piazza Duomo, come sempre, il vigile urbano sta tentando di contenere le orde di passanti che attraversano la via Mazzini senza curarsi del semaforo. Il ghisa ascolta con attenzione la richiesta di aiuto della giovane dama e prontamente, come si conviene, interviene. Avete mai notato che quando qualcuno guarda in alto, come d'incanto tutti quelli intorno fanno la stessa cosa? Per un attimo il formicaio rallenta l'attività e tutti guardano per aria il gattino che, forse sentendo lo sguardo della piccola folla, emette un debole miagolìo.
– È straziante, – la donna si rivolge al vigile, – faccia qualcosa, presto.

Il vigile Amedeo Galetti, cresciuto nelle campagne del pavese, fatica un pochino a collegare l'aggettivo ‘straziante' con il gatto sul cornicione. Secondo la sua esperienza quello è il posto preciso dove un gatto ama passeggiare, in alternativa al classico tetto citato nelle canzoni. Ma sa anche, il buon Galetti, che non c'è niente di più rischioso che contrastare un'animalista fondamentalista praticante, soprattutto quand'è nell'esercizio delle sue funzioni di salvatore. Una richiesta via radio al Comando e nel giro di pochi minuti una sirena annuncia l'arrivo dei Vigili del Fuoco. Questi ragazzi hanno di buono che non si mettono mai a sindacare o a discutere: semplicemente cercano di fare in fretta e bene il loro lavoro, piccolo o grande che sia. Perciò prendono sul serio la faccenda e si industriano, con pertiche ed esche gentilmente fornite dal vicino macellaio, al salvataggio del felino. Niente da fare, ci vuole l'autoscala. Ecco accorrere l'autoscala dei pompieri, mentre un preoccupatissimo ispettore dell'ATM provvede a organizzare la deviazione delle linee tranviarie. Ora tutta la via Mazzini è bloccata da una colonna di tram mentre i passeggeri, rassegnati al quotidiano e puntuale imprevisto, scendono bofonchiando dai mezzi. Qualcuno si ferma incuriosito ad osservare le manovre dell'autoscala e il lavoro dei pompieri, altri passano oltre scuotendo il capo (forse vengono anch'essi dal pavese, dove i gatti sono trattati da gatti).

L'animalista, sapendosi al centro dell'attenzione – dopo il gatto, certamente – spiega al vigile il lavoro del vigile e ai pompieri il lavoro dei pompieri, circondata da una folla interessata. Qualcuno però comincia a trovare esagerato il polverone sollevato e non lo manda a dire alla giovane dama. Si innesca una discussione sempre più animat, sul razionale impiego delle forze di polizia e di soccorso. Si è giunti quasi alle famose vie di fatto fra le due opposte fazioni, quando una voce fuori dal gruppo chiede:
– Ma dov'è finito il gattino?

Silenzio di tomba. Sguardi al cornicione. Ed ecco la spiegazione del pompiere in cima all'autoscala:
– È rientrato nella stessa finestra dalla quale era uscito.
Qualcuno, curioso, si spinge fin dentro il cortile della casa ed eccoli lì, una dozzina di gatti tutti molto simili a quello del cornicione: certamente nel gruppo di animali che osserva con sufficienza e distacco l'umana agitazione di quegli uomini in divisa c'è anche il nostro. Avevano ragione il Galetti e la scuola pavese.

Non è successo niente, avanti, circolare. Il formicaio riprende esattamente dal punto in cui si era interrotto.


Sedia a rotelle

Mi accoglie un carabiniere.
– Venga, il piemme la sta aspettando.
– Buongiorno, dottore – mi saluta la giovane magistrato. – Veda se potete fare qualcosa con il signore giù nell'atrio. È qui da due giorni e ci sta creando non pochi problemi. Reclama del denaro che gli è stato sequestrato per una rapina che ha subìto e non vuole intendere ragioni.
Mi rivolgo a uno dei carabinieri:
– Ma dov'è quest'uomo?
– È in bagno. Ha pisciato sui piedi del collega e l'abbiamo sistemato in bagno. Ci sono già dentro i suoi vigili.
La porta dei servizi si spalanca e appare il Giorgio che, paonazzo in volto sorregge abbracciandolo dalle spalle un povero essere senza le gambe, sporco come un tencitt e puzzolente come un caprone, forse di più.

– Tiragli su i pantaloncini. Svelto che mi sta scivolando, – ordina il ghisa a Stefano che, più imbarazzato del collega, sta infilandosi un paio di guanti smadonnando con gli occhi. Con una delicatezza insolita il Giorgio adagia l'uomo su un rottame di carrozzina, lercia e arrugginita, con lo schienale tenuto in posizione da un'asticella di legno e dello spago. Il sostituto procuratore è pronto dietro il suo scranno .
– Fatelo accomodare.

È una parola. Per un centimetro le ruote del presidio sanitario non passano dalla porta, ma per il Giorgio un centimetro di stipite in legno non è fondamentale per il funzionamento della Giustizia. Con una vigorosa spinta carrozzina e passeggero vengono ammessi alla presenza del magistrato. Mohammed parte e racconta, infarcendola di oscure maledizioni in lingua madre, la storia della sua vita. Una vicenda di spie, collaborazioni estorte dai servizi segreti italiani e mai pagate, sino a quella tremenda spinta giù dal treno costata entrambe le gambe a Mohammed, forse rielaborata e arricchita da una personalità turbata. Mohammed sente che per lui non ce n'è. Non c'è la competenza. Deve andare in Tribunale, dove gli renderanno i quattrini. Giorgio gira la carrozzina, grazie buongiorno e arrivederci, un altro colpetto allo stipite e via. Siamo in strada, diretti al tribunale. È lì che Stefano comincia a chiedersi – per la verità non ha ancora smesso, anche se da allora sono passati mesi – come diavolo siamo entrati noi, tre vigili urbani, in questo accidenti di storia.

Al palazzo di giustizia l'umana pietà, o forse il tremendo olezzo che ci annuncia, ci facilitano nelle precedenze agli ascensori e tutti, per l'amor del cielo, si scansano rispettosi. Veloce la risposta dell'impiegato competente:
– Hai fatto male a non recarti al commissariato quando ti hanno chiamato. Il denaro sarà qui martedì.
Punto. E un'occhiata a noi come a dire: portatevi via il vostro (vostro?) mutilato e sgomberatemi l'ufficio. Rieccoci con il Mohammed che smoccola ad alta voce diretti in piazza Beccaria. Nel frattempo sto scaricando il cellulare a forza di telefonate, ma neppure da Fratel Ettore lo vogliono più vedere, neanche dipinto. Vigliaccamente penso che forse Mohammed ha bisogno di una visitina medica in ospedale, magari con un buon bagno e un letto pulito per un paio di notti, ma lui non ci sta e non appena scorge l'autolettiga che ho chiamato, si lancia giù dalla sedia a rotelle, cade sui moncherini lanciando un urlo straziante. Non finge, non può fingere, lo sentiamo anche noi il suo dolore.

È sempre il Giorgio che ha la soluzione:
– Totale, Mohammed, se po savè in doe l'è che te voeret andàa? Dove vuoi che ti portiamo alla fin fine?
– In Piazza Duomo, – logico, no? Il posto dove c'è il più alto numero di sbandati, svitati, clochard nostrani ed esteri, il luogo dove da sempre l'umanità più sola si cerca e si ritrova, dove tutti gli incontri sono possibili, il centro dell'imbuto insomma.
– Giusto.
E noi si riparte alla ricerca di uno di quegli amici che Mohammed giura di avere a dozzine. Cosa possiamo scrivere nel rapporto, che lo abbiamo piantato sotto un lampione? In effetti comincio a prendere in considerazione la bontà della cosa, quando finalmente un gentile e altruista signore extracomunitario (che brutta parola) capisce la situazione, si lascia identificare e si porta via il nostro.

Sono passati due mesi. Poco fa ho visto Mohammed in piazza Duomo, mentre si spingeva disinvolto sulla carrozzina. Mi ha guardato per un lungo istante: non ci siamo riconosciuti.


Giuseppe Cordini, Milano 2007.

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